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THE YOUNG POPE – Autoindulgenza papale
di Andrea Fornasiero
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Che si ritenga Paolo Sorrentino un maestro che ha risollevato le sorti del cinema italiano con l’Oscar per La grande bellezza, o che ci si chieda con i Cahiers du Cinéma “Ci può essere qualcosa di più brutto di un film di Paolo Sorrentino?” (ai tempi della Grande Bellezza a Cannes) o lo si consideri “Il peggior regista del mondo” (ai tempi di Youth, sempre a Cannes), o ancora che si abbia una qualsiasi posizione intermedia, va sicuramente riconosciuta a The Young Pope l’originalità. Ma è altrettanto oggettivo che questa originalità abbia un prezzo e sacrifichi quasi tutto all’ostinato rifiuto delle convenzioni di un racconto strutturato (un’anti-serie dice a ragione Aldo Grasso), senza per altro arrivare allo spaesamento di opere televisive più sperimentali come Twin Peaks o John From Cincinnati.
The Young Pope non è né una serie sulla Chiesa, né una serie sulla Fede e neppure una serie sul Potere, o per lo meno non lo è se non in modo superficiale e in fondo trascurabile. The Young Pope è piuttosto una serie sulle ossessioni di Sorrentino per l’esibizione formale, il gusto per la battuta, il protagonista che si atteggia disincantato ma in fondo vorrebbe disperatamente credere in qualcosa e il ricordo insuperato del primo amore. A cui qui si aggiunge il vuoto incolmabile (persino da un Dio che si manifesta) lasciato dall’abbandono dei genitori. Il tutto coniugato attraverso scene infiorettate da barocchi movimenti di macchina e da situazioni paradossali, che si fanno beffe del naturalismo. E fino a un certo punto funziona anche: ci sono immagini che in un modo o nell’altro rimangono o per lo meno divertono, come il papa con gli occhiali da sole, il papa che fuma, il papa che prega nell’acqua, il cardinale Voiello vestito come un giocatore del Napoli e naturalmente il canguro in vaticano, che il papa esulta nel veder saltare. O ancora il sogno con i vari papi nell'ultimo episodio, illuminato meravigliosamente da Luca Bigazzi.

Inevitabilmente c’è anche però un racconto lungo dieci ore ed è davvero poca cosa: il continuo ritorno ai genitori hippie veneziani che l’hanno abbandonato in America (Dio solo poi sa perché proprio là e proprio alla Chiesa, ma vabbé) riduce il mistero sull’enigmatico Papa a una psicologia d’accatto, che per altro viene come tale riconosciuta anche da vari personaggi della serie, in primo luogo Spencer. L’intrigo che avrebbe portato un giovane americano a essere eletto Pontefice non ha né capo né coda e a un certo punto Voiello tira pure in ballo lo Spirito Santo come spiegazione. Il miracoloso superpotere della preghiera di Pio XIII è quanto di più meccanico e goffo ci si potesse immaginare per risolvere certe situazioni. I personaggi comprimari sono quasi tutti privati di approfondimento, sembrano in alcuni casi più dei puri concept che dei personaggi veri e propri (Esther è sterile, Suor Mary crede che Lenny sia un santo, ecc.).

Ne viene una serie quasi svuotata di narrazione, con larghi spazi che Sorrentino riempie di scene di passeggio o di siparietti dove Pio XIII dà stoccate all’interlocutore di turno, sia esso un altro cardinale o l’arrogante Presidente del Consiglio, il tutto senza la benché minima tensione drammatica. Tanto che quando succede anche qualcosa di piccolo risulta sorprendente, per esempio il momento in cui il cardinale interpretato da Toni Bertorelli sembra pianificare con Voiello e Spencer di detronizzare il Santo Padre, oppure la visita in Africa ai villaggi della bontà (tutto sommato l’episodio più riuscito e il solo davvero critico sull’operato di certe figure religiose), o Tonino Pettola che vede la Madonna tra le pecore, o ancora l’indagine sul cardinale Kurtwell a New York. Ma pure queste cose si risolvono presto in poco o nulla: il colpo di stato evapora subito e il materiale con cui Kurtwell crede di poter ricattare il Papa è risibile, Tonino Pettola viene liquidato con una battuta e suor Antonia con una super-preghiera.

Persino la morte di Dussolier, cristologica nel suo essere causata da un colpo al costato, non ha poi chissà quali conseguenze sul Papa, che non impiegherà molto a superare il trauma e il senso di colpa. Del resto il passare del tempo in questa serie è del tutto anomalo, per non dire bizzarro: si parla dell’indagine su Kurtwell già dai primi episodi, ma Esther fa in tempo a rimanere incinta, partorire e andarsene a crescere suo figlio – che alla fine ci appare come tutt’altro che un neonato – prima che finalmente la questione venga affrontata. Roba che a confronto la botola di Lost è stata una passeggiata.

Ci si aspetterebbe che le questioni teologiche e politiche avessero un certo peso, ma persino queste sono trattate come occasioni per esibire il gusto per il paradosso e la provocazione, in ultima analisi fine a se stessa (per esempio l'episodio che si apre con il Pontefice che dice di aver pregato così forte da rischiare di cagarsi addosso e descrive come ha stretto le chiappe alla sedia per non imbrattarsi). Che il Papa invochi il ritorno all’oscurità e al mistero sarebbe affascinante, una posizione capace di scatenare il dibattito e le correnti in Vaticano, invece no: sono tutti contrariati che il Papa voglia far rispettare certi precetti. L’anima conservatrice della Chiesa in The Young Pope semplicemente non esiste. Persino Spencer, che ci viene dipinto come il più pericoloso dei reazionari da Voiello, si mette a discutere con Pio XIII a favore del perdono dell’aborto – in quella che è per altro forse l’unica discussione affrontata con uno spirito teologico che appare serio. Se da una parte non c’è chi sostiene le posizioni di Lenny Belardo, dall’altra il modo in cui sono liquidati i suoi oppositori è tanto rapido da squalificarli: ai frati scalzi il Papa ricorda che dipendono dalle sue donazioni e li insulta per la puzza dei loro piedi; con il capo della Chiesa ortodossa si annoia; con il Primo Ministro italiano pone condizioni ridicole e via di questo passo.

Sulla Fede e sulla Chiesa e il suo rapporto con le sfide della modernità dice insomma molto di più un qualsiasi episodio di Uomini di fede di tutta la prima stagione di The Young Pope. Rimane allora un’estetica trash-chic, tra canzoni di Nada ballate dal ministro groenlandese e le scene di vestizione papale, che incanala in Tv senza concessioni il cinema del regista o per lo meno il suo ultimo cinema, grazie a una indiscutibile perizia realizzativa, all'ottimo cast e a valori produttivi quasi da kolossal televisivo. A qualcuno sembra bastare e avanzare (per Marco Giusti per esempio la libertà e l’efficacia di certe immagini superano i limiti della serie), per altri un po’ meno autoindulgenza e un po’ più passione per i propri temi e personaggi sarebbero stati preferibili. In fondo, per quanto sembrino oggi lontanissimi, Sorrentino ha firmato anche l’umanissimo esordio di L’uomo in più o l’algido e disperato noir Le conseguenze dell’amore, al cui confronto The Young Pope non può che sembrare un divertimento un po’ puerile.

 

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