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Le stagioni del nostro amore

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 93'

Regia di Florestano Vancini

Con Enrico Maria Salerno, Anouk Aimée, Jacqueline Sassard, Gian Maria Volonté

Le stagioni del nostro amore

 

 

 

 

Si ritorna, prima o dopo. Tutti noi. Si ritorna a casa, A scuola, Al lavoro. Alla nuda terra, sottoterra.

C’è poi un ritorno che mi affascina e un po’ mi assilla. E’ quello ai luoghi dove si è stati felici, un po’, almeno. Ed è sempre una delusione. L’ho provato sulla mia pelle diverse volte, al punto da giurare a me stesso di non farlo più. Ci sono stagioni e stagioni. C’è la stagione dell’impegno, quella dell’amore, quella del disimpegno. E poi c’è quella del disincanto, della delusione cocente,

La speranza di rivivere un’esperienza felice è più forte della ragionevolezza. Mi ricorda un po’ quegli uomini avanti con l’età che cercano di rivivere certe emozioni legandosi a una ragazza che potrebbe essere loro figlia o loro nipote. Con una conclusione che è poi sempre la stessa.

Il ritorno è malattia. Nostalgia, appunto. Ma l’uomo ama ammalarsi di qualcosa. Ammalarsi di gelosia, di invidia, di odio, di cupidigia, di intemperanza, ma anche di ritorno, sapendo a priori che là dove si torna non ci riserba quel che cerchiamo.

A Carducci che torna a San Guido, sono i cipressi stessi a ricordarglielo: sei cambiato, insegui dei fantasmi, non hai il candore di allora, quando ci tiravi i sassi. Ora, ricorda il poeta, ho altri pensieri: mi aspetta la Tittì, sono una celebrità e via pavoneggiandosi. Pover’uom tu sei, lo ammoniscono le piante.

E che dire del giornalista Vittorio Borghi (interpretato da Enrico Maria Salerno), mantovano, ex-partigiano e comunista, trapiantato a Roma, disilluso, sentimentalmente distrutto, (LE STAGIONI DEL NOSTRO AMORE, Florestano Vancini, 1966) che torna nella sua città, illudendosi di ritrovare lo spirito di quei tempi, per ritrovarsi ancora più deluso e amareggiato per avere intaccato quei ricordi, per avere inquinato quel poco di positività che ancora in lui albergava.

A Federico, invece, interpretato da Ugo Tognazzi, in QUESTA SPECIE D’AMORE, Alberto Bevilacqua, 1971, anch’egli disilluso e schifato da un ambiente vuoto, ipocrita e corrotto, il ritorno alla sua terra natìa e la conseguente riscoperta di valori semplici ormai dimenticati, fa bene e lo aiuta a ricostruire il rapporto con la propria moglie Ma è un’eccezione, che ha più un sapore letterario che autentico. In effetti, il Ritorno per antonomasia, forse il primo vero ritorno, è quello di Ulisse a Itaca. Il ritorno è visto come la restaurazione dell’ordine precedente. Come la riproposizione dei valori fondanti della civiltà classica: giustizia, fedeltà coniugale e filiale, “pietas”, legittimità dell’ordine costituito e quindi diritto di regnare sui propri sudditi.

Da allora il tema del ritorno ha sempre viaggiato su questi due binari, che ripropongono l’eterna ricerca della felicità, quella di una mitica età dell’oro, di un tempo aureo contrapposto alla dura constatazione di una verità amara e concreta.

A volte, il ritorno ha il volto della ricerca, non tanto delle proprie radici, ma della verità sul proprio passato. Vittorio Borghi non ha bisogno di conoscere la verità, visto che fu egli stesso artefice dei fatti che segnarono la propria gioventù. Cosa che invece non è avvenuta con Athos (Giulio Brogi), il quale è deciso a conoscere la verità sulla scomparsa del padre. Stiamo parlando, è chiaro di LA STRATEGIA DEL RAGNO, Bernardo Bertolucci, 1972; il ritorno alla sua terra, invece della scoperta della verità, diventa una ricerca sfuggente, dalle mille facce, un dilemma angoscioso sulla personalità del padre, sul suo essere eroe o vigliacco. Il ritorno, qui, mette ancora più in crisi il protagonista e conferma, ancora una volta, la doppia valenza del passato, come un Giano bifronte che da un lato seduce e dall’altro delude.

Un contributo importante a queste tematiche viene dal cinema americano. Mi limiterò a ricordare, nel “mare magnum” della produzione hollywoodiana dedicata a questo argomento, alcuni film particolarmente interessanti. Mi riferisco, in primis, allo straordinario I MIGLIORI ANNI DELLA NOSTRA VITA di William Wyler, 1946. Il ritorno qui, edulcorato dalla pressante richiesta dall’alto (La Casa Bianca) di prevedere un lieto fine per tutti, è un durissimo scontro con la realtà, impersonato soprattutto dal personaggio interpretato da Dana Andrews, un ex-commesso, un John Doe qualsiasi, che è diventato in guerra un pilota di bombardieri. Dopo numerose missioni e innumerevoli rischi, si aspetta di tornare a casa a guerra finita e trovare una moglie ancora innamorata, un lavoro decoroso e una vita serena. La patria glielo deve, o no? Tutti sappiamo cosa invece lo attende. E tutti noi abbiamo ancora stampata nella memoria la scena indimenticabile di lui, ex-pilota, che scoraggiato, ferito e deluso da una società che sembra respingerlo, trova un po’ di se stesso quando entra nella fusoliera di un bombardiere destinato alla rottamazione in uno sconfinato cimitero di aerei dimessi. C’è un’identità inquietante e impietosa tra lui, essere animato che il mondo sembra voler dismettere, e l’aereo, essere inanimato di un’armata ormai inutile e destinata penosamente ad arrugginire.

Non vorrei dimenticare un film meno noto, che ricorda da vicino il capolavoro di Wyler e che ne ripercorre il senso generale. Mi riferisco, è chiaro, ad ANIME FERITE, di Edward Dmytryk, 1946. La scarsa incisività del protagonista (Guy Madison) e un finale consolatorio contribuiscono a ridurre l’impatto sociale che il film avrebbe dovuto avere e che comunque riusciamo ad intuire. Qui sono i genitori stessi a non capire appieno il dramma del figlio reduce: una madre che non si mostra interessata ad ascoltarlo e che cambia argomento ogni volta che egli vorrebbe raccontare ciò che ha vissuto. Un padre che lo tratta come fosse ancora un ragazzo e come se nulla fosse cambiato. Una ritorno a casa che, la sera stessa del ritorno, spinge Cliff (il protagonista) a affondare il volto nel cuscino per piangere disperatamente.

Infine, vorrei ricordare uno dei più bei ritorni a casa che io conosco. E’ quello del cowboy da rodeo, Jeff McCoud (Robert Mitchum), che decide di ritirarsi dopo che un toro Brahma lo ha squassato quasi uccidendolo. E’ IL TEMERARIO, di Nicholas Ray, 1952.

Torna a casa, dopo aver scroccato un passaggio in autostop da un camionista. Ritorna alla sua casa, un’abitazione che ormai non gli appartiene più, visto che è stata venduta. Ma nessuno ha venduto i suoi ricordi. Li cerca, sono sotto la casa, dove nessuno è mai andato. Solo lui sa dove sono, perché da ragazzino si divertiva a nascondere sotto la casa certi suoi giocattoli. E ora, dopo tanti anni, li ritrova: sono ancora lì. Piccoli giocattoli, grandi emozioni. Li tiene nelle sue mani ora ed è felice. Per un istante. La musica romantica si interrompe e una canna di fucile gli viene puntata contro. E’ il fucile del nuovo proprietario, che non lo conosce e che non sa che cosa stia cercando, lì. Da ora in poi, la vita di Jeff sarà una corsa ad ostacoli verso il ritorno al rodeo e la morte, inevitabile per una storia così, disegnata apposta da un Horace McCoy (ed altri) al suo meglio.

Un film infinitamente triste e struggente, un vero eroe Rayano, un “loser” ingenuo ed innocente, schiacciato da un mondo crudele.

Un ritorno a doppia faccia, Di nuovo, Giano.

Ed il ritorno di Jeff è fatalmente il nostro ritorno, la secchiata in faccia alle nostre illusioni, il brusco risveglio ad una realtà mai veramente accettata e troppo spesso rassegnata.

 

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