Regia di Paolo Costella vedi scheda film
Il figlio di un polentone oltranzista e di un incorreggibile terrone vogliono sposarsi. È lo spunto per la sagra dello stereotipo in cui oltre alla mancanza di originalità, c’è anche tanto cattivo gusto (e sponsorizzazioni selvagge al seguito). Retrogrado, involontariamente macchiettistico, da evitare come la peste.
In un’epoca nella quale si discute sull’integrazione tra i popoli del mondo, “Matrimonio al Sud” ricaccia l’Italia 50 anni nel passato, riproponendo senza vergogna l’antico refrain dell’incompatibilità tra Sud e Nord del (Bel)paese. Merito di tal Paolo Costella, che arruola un nugolo di caratteristi dalla parlata smaccata e li pone in una contrapposizione già vista e rivista. L’ossatura è alla Oldoini, con Boldi e Izzo capifamiglia fortemente caratterizzati, anzi per la precisione stereotipati. Tutto è prevedibile, d’altronde non ci sono lampi di originalità: due famiglie con un solo figlio, le madri comprensive, i padri ottusi, in un Nord ricco ed industriale ed un Sud che viaggia ancora al ritmo di tarantella. E ce n’è anche per romani (il solito immancabile Enzo Salvi rinvigorisce la burinità romana) e ciociari (nel cast anche Gabriele Cirilli).
Con un quadro già dipinto centinaia di volte in passato, Massimo Boldi, oramai messosi in proprio con la sua “Mari Film”, prova a circuire gli italiani ancora capaci di divertirsi con tanta pochezza, infarcendo un canovaccio ben noto con poche variazioni sul ritrito tema. Ecco perché Costella o Oldoini, Izzo o De Sica, Boldi o Calà, cambia poco o nulla. Ed ecco perché su tale canovaccio risulta necessario cucire piccole situazioni (i ragazzi hanno i ritmi sessuali dei ricci, il prete e il campanaro sono rispettivamente cieco e sordo, il matrimonio è ripreso dalle telecamere con tanto di showman, con cui le madri degli sposi vorrebbero copulare selvaggiamente): tutte situazioni che risultano ancor più banali e inverosimili del resto.
Il problema è che finché non si rompe lo stampino, di queste deleterie boiate saremo costretti a vederne ancora per molto. L’alternativa è che si “rompa” lo spettatore. Cosa complicata dato che prodotti “culturali” come questi non sono innocui, ma aiutano a rinvigorire una becera arretratezza da cui in fondo il cinema italiano non vuole staccarsi ed in cui vincono solo gli sponsor.
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