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F Tipi Film

Regia di Ezel Akay, Mehmet Ilker Altinay, Aydin Bulut, Huseyin Karabey, Baris Pirhasan, Grup Yorum, Reis Çelik, Sirri Süreyya Önder, Vedat Özdemir vedi scheda film

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La recensione su F Tipi Film

di OGM
7 stelle

I sogni non si lasciano inscatolare. Nemmeno gli ideali. Li puoi chiudere tra quattro pareti, mettere sotto chiave, ma essi riusciranno comunque ad evadere, anche senza spezzare le catene né forzare le porte: scapperanno, semplicemente, sulle ali di una rivolta interiore, diretta verso il cielo. Questa evasione può diventare un racconto. Quasi muto, per forza di cose. Perché in Turchia, nelle carceri speciali “di tipo F”, i detenuti vivono in isolamento. Non possono nemmeno cantare. Sono stati arrestati per reati “politici”, sono dissidenti socialisti, sono soggetti a cui deve essere impedito di portare avanti, anche in prigione, anche solo a parole, il loro progetto rivoluzionario. La solitudine deve spezzare il discorso, togliere l’aria al pensiero. Ma Muharrem e i suoi compagni non ci stanno. Non è possibile fermare l’espressione umana. L’arte, sotto forma di versi, di colori, di musica, trova sempre la strada. L’immaginazione non si può bloccare, nemmeno quando le condizioni sono disumane, le privazioni crudeli, la tortura psicofisica un subdolo e continuo dato di fatto. Nel segreto delle celle, negli angoli nascosti dei cortili, avviene il miracolo. Si realizza a fatica, clandestinamente, ma il prodigio si ripete ogni giorno. Una pallina, contenente un messaggio, vola al di sopra di un muro, oltre il quale non si vede. Si sa solo – anzi, lo si spera – che dall’altro lato c’è qualcuno che la può raccogliere, e magari trasmettere a sua volta. Sono residui frammenti di dignità, quelli che rimbalzano tra le pareti fatte per separare, umiliare, cancellare la memoria, inibire ogni slancio. Per sopravvivere ci si inventa un mondo che non è più presente, dal quale si è stati deliberatamente esclusi. Si costruisce un liuto con pezzi di arredi e stoviglie. Si stringe amicizia con uno scarafaggio. Ci si improvvisa artisti d’avanguardia. Si recita la follia, si interpreta il sacrificio, come quando ci si lascia morire di fame, oppure si dà fuoco al proprio corpo. Si fa in modo che l’invisibilità avvampi con un accecante  colpo di scena. Il lampo del genio è poesia dell’improbabile, della creatività che sfugge alla casistica prevista dal protocollo. Per vederla all’opera, bisogna saper guardare. Questo film ci apre uno spioncino riservato, su una realtà che solo i suoi ideatori possono concepire: gli altri non sono in grado di sospettarne l’esistenza. Le gemmazioni di un io abbandonato a se stesso sono echi formulati in codice, il cui rimbombo è inudibile per le orecchie estranee, sintonizzate sulla normalità, non allenate a captare una verità travestita da stravaganza. L’effetto sonoro complessivo è  confuso, impersonale, ma nasce  da una sovrapposizione di voci strettamente individuali,  singole, costrette ad andare ognuna per conto proprio, secondo una tonalità unica che non cerca l’accordo, ma solo un impertinente contrasto con il silenzio circostante.  Questo insieme di sfaccettature acustiche è  il prodotto di una melanconica consonanza di fantasie,  molto diverse eppure intimamente accomunate dalla loro natura ombrosa e sommessa, da animali notturni, che vivono fuori dal branco ed emettono versi che nessuno ascolta. In quel buio si aggirano gli sguardi di nove registi, autori di altrettanti episodi separati, fisicamente, dalla segregazione e dalla incomunicabilità, eppure immersi nella stessa densa, asfissiante, mancanza di luce. Tanti assolo ovattati, avvolti teneramente nell’eroismo sommesso delle piccole cose. Una raccolta di racconti randagi, rintanati uno accanto all’altro, che, però, non arrivano a prendersi per mano, a diventare una ballata, a comporre un capitolo della Storia. Questo non è Hunger. Questa non è la Gran Bretagna del 1981. Questo è un dramma di pochi anni fa. Nato dalla parte sbagliata dell’Europa, dove gli eventi non sempre fanno notizia.   

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