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Manchester by the Sea

Regia di Kenneth Lonergan vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Manchester by the Sea

di arkin
8 stelle

 

Ritratto di un uomo che annega…

Preda di un senso di colpa paralizzante, Lee si muove come un non-morto che ha ancora facoltà di respirare e camminare, ma che non ha più vita. Il trauma emotivo provocato dalla tragedia di una perdita dolorosa-quanto della responsabilità che grave sulle sue spalle- ha bloccato l’uomo in una stasi dalla quale non riesce ad uscire: è scappato lontano dalla famiglia, dalle radici, dalla città natale per iniziare a ”non esistere” e non avere nulla e nessuno che gli ricordi la propria identità- ma è servito solo in parte: ha posto su di lui la maschera dell’anonimato ma non ha suturato le ferite. Poi Lee ha praticato un’anestesia emotiva ai suoi sensi-che però smette di avere effetto quando qualcuno lo pungola; si è rifugiato in un lavoro come portiere che non ama e che gli crea solo altre distanze-e anche in questo caso il distacco è parziale se inquiline lo trovano attraente e altre lo attaccano di proposito, e passa i giorni in questo mondo oscuro e grigio di doveri e uscite notturne da solo, per ubriacarsi e ignorare qualunque richiamo alla vita. Alla ricerca di…dolore, e di qualcuno che lo punisca. Routine di disperazione compressa della quale ci parla l’inizio, scandito da un ritmo di azioni-non azioni sempre uguale: riparazione, spazzatura, spalatura, riparazione…quasi tutto girato tenendo a distanza la videocamera, e Lee sullo sfondo, fino al momento in cui lo squarcio di un’emozione non ci avvicina al volto del protagonista…

Il “ritratto di un uomo che affoga” del regista Kenneth Lonergan è un ritratto che non si basa su sconvolgimenti melodrammatici, ma appare come l’effetto di una goccia letale che cade ogni secondo sulla testa del protagonista, in una tortura auto-imposta, e che lo colpisce ancora, e ancora e ancora…oppure come l’immagine di un uomo affaticato, pallido, affranto, che abbandona ogni speranza; e che mentre sta annegando abbassa le braccia e non combatte, per tornare a galla solo ogni tanto, con quel che sembra un residuo di vita, ma distante: forse un moto per istinto di sopravvivenza, o forse abitudine…forse un senso di responsabilità che non molla nei confronti di fratello e nipote. Tuttavia, come se avesse un pudico decoro nei confronti di quanto mostra, Lonergan rimane lontano: nessuno urla, si strappa di capelli, cade in ginocchio, sanguina…la musica non si lamenta nelle orecchie dello spettatore, ma è anch’essa rigorosa-compresa la versione dell’“Adagio” di Albinoni che accompagna il flashback della tragedia di Lee. Le notizie di lutti arrivano “a distanza di piani americani o figure intere”, e non vediamo in faccia il dolore che si esprime (è così per Lee, ma anche per Patty); i dialoghi immersi nella sofferenza sono ripresi dietro a vetrine e vetri; gli scoppi di dolore e rabbia di Lee vengono sommersi da corpi e mani…E questo distacco pare essere speculare a quello del suo protagonista e al modo in cui Affleck affronta il personaggio, abbassando le spalle e la voce, mettendo le mani in tasca per aumentare la distanza dagli altri, fissando negli occhi ed evitando lo sguardo l’attimo dopo…perché Lonergan non sta cercando solo rigore, ma vuole ricreare il vuoto profondo in cui si muove il suo Lee…

Chi ha osservato in faccia gli abissi della depressione e del dolore-abissi che sarebbe meglio ignorare- conosce lo stato in cui il personaggio di Affleck si muove, e persino il suo disinteresse emotivo: l’ultima difesa di colui che annega e sa che non si salverà mai nei confronti del resto del mondo che va avanti, e pretende che “tu vada avanti con lui”, mentre il naufrago di un dolore accecante come quello del protagonista-un autentico strappo sulla presa della vita, in caduta a capofitto nel vuoto, vorrebbe solo fermarsi e non sentire più nulla. Il modo privo di coinvolgimento in cui Lee reagisce, ed agisce, per alcuni imputabile alla presunta incapacità dell’attore protagonista Casey Affleck(davvero molto bravo, invece, in una mimica dosata e calcolata del dolore), è in realtà la maschera reale con la quale quanti vengono presi nel gorgo di una sofferenza soverchiante, che soffoca e uccide, sono obbligati a coprire l’urlo costante che preme sotto la pelle e nel corpo…dolore che, sfogato, sarebbe un grido senza fine, o davanti al quale chi lo prova sarebbe costretto ad affrontare un abisso troppo profondo. A lacerare se stesso.

Lee è colpevole, o meglio dire responsabile, di un atto che è in definitiva un incidente, per il quale non può essere punito dalla legge, ma che nel suo esito è quanto di più orribile possa capitare ad una persona: il fatto che la tragedia che colpisce la sua famiglia sia così verosimile, e accaduta in modo tanto “repentino e senza scopo”- un fuori scena che focalizza su Lee, ma che non ci mostra la tragedia che si consuma, rende ancora più terrificante l’impotenza davanti alla perdita e al senso di colpa. L’incidente è qualcosa che potrebbe capitare in modo verosimile a chiunque-soprattutto in situazioni di disagio socio-economico, dove l’uso di mezzi poco sicuri in favore del prezzo basso causa più morti di quanti non vorremmo tutti-  e se pure a Lee capita sotto l’effetto di droghe e alcol, questo non toglie l’imprevedibile esito di una semplice “uscita breve per prendere delle birre”…

Il momento successivo, scandito da dialoghi a bassa voce e lontani “sacchi per resti umani” è ancora una volta concentrato soprattutto sulla landa deserta e grigia che si sta facendo spazio nell’animo di Lee, che risponde confuso e in shock, perde per un attimo l’equilibrio, viene portato in centrale…e si spezza. Il momento in cui accade è quello in cui non riceve alcuna punizione-quella punizione che sente di meritare, e se anche non vediamo il corto-circuito emotivo che precede la caduta, lo avvertiamo nel domandare incredulo: ”Tutto qui?” e “Posso andare?” del protagonista, con occhi gonfi e rossi, spalancati, poco prima che tenti la sua prima “fuga” dal dolore che ha già cominciato a cannibalizzarlo (o vampirizzarlo) come un’entità fisica.

Il film, scandito da sequenze che dal presente tornano al passato, non si sviluppa solo come una narrazione di eventi, ma pare evocare…memorie. I flashback sono ricostruzioni, ma in molte occasioni la relazione con le azioni presenti le amalgama ad esso, mutandole in scorci intimi che sembrano rimembranze…e i tempi sono allungati, dilatati…gravitano nell’aria come miasmi e fumi grigi, sottolineando il panorama interiore di Lee, che vive il suo ciclo continuo, innescato dalla tragedia, di uomo che annega e torna a galla, annega e torna a galla, cercando di continuo la mano di colui che lo farà restare sotto: mentre si muove nel suo mondo plumbeo di distacco apparente, qualcosa lo pungola: Lee reagisce, poi cerca la punizione e il dolore…e torna sotto…sempre più a fondo…sempre più vicino al “rock bottom”…

“Manchester by the sea” si presenta, in definitiva, come un ritratto di un dolore non espresso, chiuso dentro e allontanato- non ci è dato sapere se solo per scelta del suo protagonista, incapace di affrontare lo strazio e il senso di colpa, o anche per motivi culturali (L’imposizione ai maschi di non mostrare dolore? Di sopportare tutto con virile distacco? Non è il fratello di Lee che scherza sulla propria malattia? Non è il nipote di Lee, quello che si ritrova a piangere all’improvviso davanti ad un pollo surgelato?), in cui tutto sembra riflettere la mente del suo protagonista, e il suo lento annegamento: la fotografia in cui anche il colore azzurro del cielo sembra un’immagine di solitudine, la musica, le inquadrature che si allontanano dal dolore e pongono i personaggi agli angoli della ripresa, i dialoghi che svicolano in direzioni  di calma, raziocinio o ironia nei momenti peggiori, come se non volessero mai avvicinare troppo il centro del ciclone…e la recitazione pacata e dosatissima di Affleck, che conosce il suo personaggio-tre sequenze ce ne darebbero prova da sole: quella in centrale nella notte della tragedia, la telefonata della moglie per venire al funerale(la voce bassa e controllata tradita dalla frenesia delle gambe e dal gioco delle mani) e il momento in cui la moglie di Lee cerca di avvicinarlo per scusarsi e il corpo di Affleck, teso, retrocede e si richiude…

Ogni elemento concorre a dipingere “l’uomo che affoga” del regista, in un mare calmo, mentre gli spettatori, che non sanno cosa fare o come aiutarlo, oppure non vogliono farlo, restano a guardare o tendono una mano senza riuscire a sfiorarlo.

Per quanto mi riguarda, un ottimo film.

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