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Una vita difficile

Regia di Dino Risi vedi scheda film

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La recensione su Una vita difficile

di LorCio
10 stelle

Il protagonista di Una vita difficile, il capolavoro di Dino Risi, non condiziona la storia del proprio Paese, ma la attraversa. Ecco il grande romanzo del primo ventennio della repubblica italiana, il bilancio di un italiano che più medio, apparentemente, non si può: da giovane partigiano un po’ codardo a giornalista squattrinato per un quotidiano operaio, il romano Silvio Magnozzi si lega ad Elena (la splendida Lea Massari), che l’accudisce sulle montagne durante la Resistenza – e lo salva da un tedesco, ucciso con un ferro da stiro – e che litiga con la severa madre pur di seguirlo nella capitale. Soldi non ne girano, si mangia raramente, il grande cambiamento sembra non arrivare mai (cioè la classe operaia al governo). Silvio finisce in carcere dopo i disordini del quarantotto, con Elena incinta che lo sollecita a proseguire gli studi in architettura (notevole la scena dell’esame). Ma niente, l’ideologia e la passione politica prevalgono sul resto e la mogliettina, ormai stufa, se ne va. Le loro vite prendono strade diverse per poi ritrovarsi.

 

Scritta da Rodolfo Sonego in stato di grazia con l’intento di realizzare un grande racconto storico popolare nostrano (e autobiografico), è una perla nel percorso artistico di Dino Risi, che si incastona in quella preziosa tradizione italiana di parabole agrodolci con personaggi sfortunati tanto a cara ad autori come Ettore Scola e Luigi Comencini. Una vita difficile racchiude nel suo titolo tutta la potenza dell’opera, un cinema di sinistra nel quale si segue la famosa regola del “vietato diventare ricchi”. Eppure Silvio Magnozzi ha la fortuna a portata di mano, ma, come dice al figlioletto, non l’ha mai voluta cercare. Il destino dei Silvio Magnozzi, allora, è quello di opporsi sempre all’autorità di turno, schierarsi sempre dalla parte di chi è meno favorito dalla sorte, dalla parte degli ultimi. È un piccolo intellettuale, dominato da un profondo dissidio interiore che gli condizionerà per sempre l’esistenza. Attraversando i passaggi più importanti della nostra vita (le lotte partigiane, l’immediato dopoguerra, il 1948, i primi accenni di boom), è una commedia amara e satirica, impietosa e tagliente, con venature, più che drammatiche, disilluse, e i graffi cinici del Risi migliore.

 

Pieno zeppo di sequenze memorabili, vale la pena ricordarne tre: l’abbuffata a casa dei monarchici durante la lettura dei risultati del referendum monarchia contro repubblica (tra l’altro, in un’altra scena molto bella, Magnozzi incontrerà di nuovo uno dei monarchici, il Marchese Ciafferoni, ormai decaduto, che fa la comparsa nei peplum); la disperata, allucinata, ebbra camminata di Silvio, all’alba, in un viale di Viareggio; l’umiliazione del protagonista ad opera del commendator Bracci (un laido Claudio Gora) davanti agli occhi del monsignore e il successivo riscatto. Alberto Sordi è divino nell’interpretazione più bella della sua carriera. Ed è abbastanza curioso che lui, democristiano di sponda andreottiana, risulti più che credibile in un ruolo di sinistra. Sordi è semplicemente meraviglioso nell’incarnare un antieroe intellettuale, idealista, sciagurato al quale la riabilitazione finale a uomo del popolo fa onore. Comprimari di lusso Franco Fabrizi e Lina Volonghi nei loro ruoli ideali (il cinico e la suocera) e, nella parte di loro stessi, Silvana Mangano, Vittorio Gassman e Alessandro Blasetti.

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