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Verdi dimore

Regia di Mel Ferrer vedi scheda film

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La recensione su Verdi dimore

di spopola
6 stelle

Ogni tanto, soprattutto di notte e sulle reti Mediaset, mi capita di imbattermi in questo filmetto abbastanza risibile (cercherò poi di spiegare perchè) che non manca mai però di suscitare in me quella che in genere definisco “la tenerezza nostalgica del ricordo”. Risveglia in me sensazioni antiche infatti, mi riporta alla mente tempi ormai lontani, e soprattutto la “memoria dell’attesa” che fu forte e intensa proprio per questo titolo e che poi all’atto pratico dovette fare i conti, quando finalmente l’opera arrivò sui nostri schermi, con la delusione cocente non solo per la scarsa qualità del risultato, ma anche per la totale disattesa delle aspettative (un po’ ingenuamente voyeristiche devo dire) che forse impropriamente erano state pompate ad arte quando ancora eravamo agli albori (ameno qui in Italia era così) dell’utilizzo del marketing strategico per pianificare i lanci anche dei film. Mi spiego meglio, perché di “Verdi dimore” i giornali ne parlarono certamente molto di più prima, durante la lavorazione, che dopo a “conti fatti”. Evidentemente Hollywood aveva investito molto su questa impresa (e il cast lo sta a dimostrare: non solo il nome della Hepburn, che era già allora una straordinaria icona sulla cresta dell’onda avendo al suo attivo opere come - fra le altre -, “Vacanze romane”, “Sabrina”, “Cenerentola a Parigi” e “Arianna”, ma anche quello dell’emergente, inquieto, un po’ maudit Anthony Perkins che con la sua ambiguità fra il tenero, il perverso e l’androgino, incarnava per molti versi un modello e un “desiderio” molto diffuso che andava per la maggiore). E proprio sul suo nome puntò molto la campagna preventiva di lancio, che occupò abbastanza spazio sulla stampa dell’epoca, non solo di settore: raccontandone la lavorazione, si dichiarava esplicitamente infatti che il film avrebbe offerto il primo nudo integrale dell’attore, e su questo aspetto si cercò di concentrare l’attenzione “chiacchierata” e un po’ scandalistica dell’evento, con l’intento evidente di suscitare pruderie nascoste e sottaciute. Che ci fosse una forte aspettativa in positivo, lo dimostra anche il fatto che puntualmente, in Italia, la Mondadori “recuperò” il romanzo di W. Henry Hudson, per pubblicarlo con tempestività assoluta (anche se in edizione economica nella collana de “I libri del pavone” antesignana dei più celebrati “Oscar”). Di analoga evidenza anche il fatto che la decisione fosse strettamente correlata proprio con l’uscita del film nelle sale (al di là della non eccelsa qualità della scrittura, che tuttavia può conservare il fascino dell’avventura nel raccontare in prima persona questa esperienza di un incontro e di un amore). Il volume porta infatti in copertina – ed è proprio la prima edizione datata Agosto 1958 - la stilizzazione disegnata del sorridente volto dell’attrice, per la verità molto poco “indigena”, oltre che la dicitura: “Interpretato da Aundrey Hepburn”. Di quel presunto nudo totale (che si lasciava persino immaginare “frontale”) ovviamente non c’è traccia (solo una innocua “doccia” sotto una cascata ripresa non in primo piano e di scorcio, dove non si riesce nemmeno bene a comprendere se chi si esibisce in campo lungo è Perkins o una controfigura).. e quindi anche sotto questo profilo le aspettative andarono fortemente deluse per chi… vogliamo dirlò? Si era un poco “illuso” ed io ero certamente (mi vergogno un poco ad ammetterlo) fra questi… Fin qui l’aspetto gossip della situazione, comunque marginale. Passando allora al valore effettivo dell’opera, potrei dire che quello dell’omissione del nudo sarebbe ovviamente stato il male minore: c’erano difetti strutturali ben più profondi a giustificare la tiepida accoglienza riservata da pubblico e critica, e non solo in America, tanto che qui in Italia, dopo lo strombazzamento preventivo, la programmazione venne effettuata non proprio in estiva, quasi… diciamo “crinale” in quella zona incerta fine agosto e i primi di settembre riservata comunque a molte “marginalità” della stagione. La storia è presto raccontata: l’ambientazione è esotica, come lascia ampiamente prevedere il titolo.Siamo alla fine dell’800 e i luoghi dell’azione quelli delle foreste dell’Orinoco (vistosamente ricostruite in studio, o giù di lì per altro, come spesso accadeva ancora in quei tempi).. A seguito di una rivolta, il protagonista, un giovane esploratore di nome Abel , trova rifugio appunto in quella lussureggiante e ancora primitiva giungla amazzonica. Vi incontrerà una ragazza semiselvagga (la Hepburn, per l’appunto,splendente come al solito) che si crede ultima discendente di una civiltà ormai scomparsa, e che gli indigeni temono (e odiano) come se si trattasse di uno spirito del male. Nascerà fra i due una struggente, impossibile, quasi disperata storia d’amore che purtroppo però non potrà concludersi positivamente (e sarà proprio la ricerca del passato, il tentativo di “scoprire” davvero le origini ella fanciulla, a determinare il drammatico epilogo che sfocia un poco nella “dimensione” della favola). Visto oggi si accentua fortemente il disagio e dell’incoerenza, proprio a partire dalla falsità della cornice. Ma forse il difetto maggiore è dovuto a una regia un po’ di maniera, e priva dei guizzi necessari, che proprio per questo toglie fascino e “magia” alla narrazione. Il demerito va a Mel Ferrer (allora consorte dell’attrice) che evidentemente occupava una professione non molto confacente alle sue qualità (di breve e poco produttivi risultati, per altro, visto che “Verdi dimore” è forse quello più “accettabile”). Non che manchi l’impegno: sono le qualità a latitare. In effetti forse c’era persino stata l’individuazione di una possibile “giusta” chiave di lettura (un’atmosfera un po’ surreale, leggermente delirante, intrisa di romantiche palpitazioni) e il coraggio (un po’ incosciente) di spingere l’acceleratore in alcuni tratti (come nel finale) senza temere di sfiorare il ridicolo (e un pochetto in effetti… ci si avvicina). Ma è proprio un percorso insidioso come questo che avrebbe richiesto una mano molto più “creativa” e personale per riuscire a dare una attendibile lettura interpretativa di un’opera comunque di difficile trasposizione in immagini (per tutte le implicazioni anche “suggestive” che contiene) come è appunto il romanzo di riferimento. La storia è giustamente rarefatta e trasognata, ma la pretenziosità prolissa dell’assunto finisce per prendere il sopravvento su tutto il resto e per disperdere anche le poche cose di decenza che comunque sono disseminate intorno. Qui della Hepburn rimane in mentre soprattutto la sua radiosa bellezza. Per il resto, è ordinaria amministrazione (oggettivamente era molto difficile poter fare di più e di meglio). Ammirarla nello splendore dei suoi anni migliori (spesso “accarezzata” con pudico sguardo “innamorato” dalla macchina da presa) è un piacere che appaga gli occhi e compensa gli squilibri dell’azione. E nemmeno Perkins aggiunge qualcosa di rilevante al suo curriculum interpretativo già denso di speranze e di ambizioni. Fra le curiosità un po’ anacronistiche (ioltre alla presenza sempre intrigante di Lee J. Cobb - qui molto di maniera - nel ruolo di colui che "potrebbe" essere il nonno della ragazza), da ricordare la presenza di Sessue Hayakawa (rammentate il comandante giapponese del campo di prigionia de “Il ponte sul fiume Kwai”?)… un orientale chiamato a interpretare il ruolo di un “improbabile” indigeno (ed era già qualcosa per l’epoca, visto che a volte si faceva persino di peggio fregandosene di ogni attendibilità), oltre a quella, altrettanto singolare e inevitabile, di Henry Silvia (un’altra faccia un po’ esoticheggianti per dare il giusto “colore” e connotati di credibilità all’ambientazione). La partitura musicale che accompagna l’azione (appropriata e coinvolgente) è di Hector Villa Lobos ed è forse la cosa di maggior fascino che ancora oggi resiste e coinvolge.

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