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Creed - Nato per combattere

Regia di Ryan Coogler vedi scheda film

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La recensione su Creed - Nato per combattere

di M Valdemar
5 stelle

 

locandina

Creed - Nato per combattere (2015): locandina



La regola dell'ammicco.

Creed. Nato per cavalcare l'onda ultranostalgica del brand Rocky.
«Un passo alla volta. Un pugno alla volta. Una ripresa alla volta», la cantilena da strategia pugilistica nonché lezione di vita dell'allenatore Balboa al pupillo Adonis, figlio di cotanto padre - Apollo Creed - ancor prima di averne consapevolezza.
Un passo alla volta ecc. è anche però, per elementare strategia comunicativa e riduzione narrativa, il mantra del film: ricalco aggiornato ai mo(n)di e ai tempi (e ai fenomeni musicali) odierni del celeberrimo capostipite.
Impresa riuscita: il lavoro ai fianchi dello spettatore - già messo in posizione passiva - passa inevitabilmente dall'utilizzo sfrenato e irrinunciabile di tutti i codici, gli strumenti, i sottotesti cari al genere; tali che, il déjà-vu più che sottile sensazione è tedioso compagno di viaggio/visione.
Si arriva a fine match stremati da cotanta sequela di clichè e topoi e metafore: il riscatto, la ricerca di sé, la lotta per rialzarsi dalle disgrazie quotidiane, l'importanza dei valori "giusti", gli sguardi melanconici ai fantasmi del passato, l'affermazione identitaria («fiero di chiamarmi Creed!» capirà e urlerà al mondo intero alla fine il rampollo).
Qualsiasi cosa si pensa che ci possa essere, immancabilmente, c'è (esemplare ed emblematico il match conclusivo, prevedibile come un incontro che tutti sanno essere truccato; e sì, ci sono pure i commentatori esaltati, i fiotti di sangue e le ferite grondanti pronte a riaprisi a ogni duro colpo, il giubilo della folla conquistata dal "povero" outsider, la dedica alla mamma e l'abbraccio alla fidanzata, l'onore del rivale stronzo, e il risultato "nobile"): la - ricerca di - orginalità non è mai stata presa in considerazione.
Identica considerazione per l'aspetto formale: primi piani enfatizzati su volti che "comunicano" emozione, ralenty che esaltano i momenti topici del duello, riprese vorticose (francamente eccessive) della mdp che dettano il ritmo e dopano l'azione, messa in scena generalmente dedita agli automatismi di tante pellicole sulla boxe. Che pure - va detto - funzionano, nel generare e gestire tensione, tenuta, tempi, l'epica della battaglia e l'etica - la greve retorica - della "nobile arte": ma più per derivatività e diritti acquisiti - e per un comodo, inerte rispetto di regole e logiche - che per chissà quali virtù-volontà registiche.
La sola idea di regia, se si vuole, risiede nel modo in cui Creed ripercorre astutamente luoghi e simboli della memoria rockyiana: un poster qua, uno spezzone di filmato storico là, un paio di lapidi dai nomi importanti lì; e la celebre gradinata di là, alla fine della storia e della saga in procinto di reinventarsi.
Insomma, un ammicco dietro l'altro. Poi però c'è Rocky. Sly. Invecchiato. Decaduto.
Un ristoratore seduto su un ring che riflette sull'esistenza.
Lasciato il carico da ottusa primadonna all'emergente figlio del dio Apollo, si può permettere di recitare, di essere e vivere il Rocky stanco e malandato in maniera credibile e commovente: monologhi, posture, occhiate e occhiaie, cadute e riprese, e i segni del tempo, che sanno di autenticità (anche quando deve vedersela col più terribile dei mali: sì, altra furbata di sicuro successo).
Il vero ed unico colpo di genio dell'altrimenti anonimo film abitato da anonime presenze (compresi protagonista, fidanzatina musicista quasi sorda, e sfidanti vari) su anonimo abusatissimo script: un ottimo Stallone in una delle sue migliori interpretazioni si divora, facilmente, tutto e tutti.
KO.

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