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La comune

Regia di Thomas Vinterberg vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su La comune

di M Valdemar
4 stelle

 

locandina

La comune (2016): locandina



Una comune di luoghi comuni.
Sul vivere tutti insieme in una grande casa, formare una famiglia non tradizionale, abbracciare appieno lo spirito dei seventies, abitare il «tempo dell'amore». Tutto questo - già visto, conosciuto/riconoscibile, in forma di flaccido raccontino d'epoca, luogo cinematografico periodicamente ritornante - ed altro. Lo psicodramma familiare, ad esempio.
Il testo che conta, a conti fatti. Finché il film - la rappresentazione del microcosmo gaio - procede per schematismi e automatismi risaputi, inscena banali dinamiche di gruppo senza alcuno sviluppo interessante (eppure dura quasi due ore), scaglia sullo schermo personaggi prestampati ma funzionali, innesca ovvi meccanismi di fascinazione, è (quasi) facile stare al gioco.
S'accettano, insomma, la retorica della ricostruzione d'epoca (esattamente come ce la immaginiamo e come deve essere: usi e - libertà di - costumi, musiche, sesso, balli e bagni ignudi, avvolgenti colori autunnali, turbe adolescenziali e immaturità del mondo adulto), l'ottica manierata e i toni didascalici della regia di Vinterberg, i pretestuosi sottofondi impegnati (i tg che scandiscono gli orrori globali del periodo), la filigrana assai leggibile-prevedibile di narrazione, tematiche, estetica, messa in scena.
Tant'è che, di conseguenza, la riflessione non riguarda ciò che l'opera vorrebbe dirci quanto piuttosto, semplicemente, dove voglia andare a parare.
Ma poi. Diventa chiaro.
A rompere gli equilibri del nucleo allargato (e del corpo filmico) giunge - come inelegante scia di grosso(lano) pennarello nero su fragili righe redatte con allure autoriale - lo spettacolo tragico della gelosia. Banalmente. E sono cose barbare: il tradimento (toh: lui docente s'accoppia con la bella giovane allieva) e le ragioni di coppia spezzata si divorano famelicamente i resti della comune esibizioncina laccata, virando in farsa tragica.
Tra scene madri d'intensità crescente (talune accettabili talaltre sfocianti nel ridicolo), isterismi incontrollati come rifugio accogliente d'ogni mancanza di testo, imbarazzi di sorta (la figlia dei due, "spettatrice" casuale buttata lì per far scena, e casino), sottotracce incredibili (il povero piccolo di casa), l'armamentario c'è tutto; e se lo cose non scadono del tutto nel pattume è (solo) per la bravura di Trine Dyrholm (e dei suoi luccianti occhioni blu mare).
Mentre il regista, palesemente incerto sul da farsi (e dirsi, e concludersi), prima di rintanarsi in una chiusa che celebra il «tempo dell'amore», appiccica una sequela goffa di finali e controfinali (tra i quali un furbesco funereo colpo di coda) che sembra non finire più.
La più comune delle magagne.

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