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Eisenstein in Messico

Regia di Peter Greenaway vedi scheda film

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La recensione su Eisenstein in Messico

di champagne1
7 stelle

Al culmine della sua carriera, nel 1930 Eisenstein viene invitato a Hollywood dalla Paramount per la realizzazione di un film, che però non sarà mai effettuato per divergenze artistiche (o politiche, visto che il Regista era uno dei massimi esponenti della intellighenzia Sovietica). Passare dalla California al Messico, il Paese che aveva addirittura anticipato di 5 anni la Rivoluzione Russa, era un itinerario affatto impossibile, anche perché egli avrebbe voluto realizzare un documentario, in parte recitato, dal titolo Que Viva Mexico!.che pure non vide mai la luce.

 

Nel corso del viaggio l'Autore di Ottobre, che nell'Occidente venne conosciuto come "I dieci giorni che sconvolsero il mondo", si fermò a Guanajuato dove, come le didascalie di inizio film avvertono, trascorse i dieci giorni che sconvolsero se stesso...

 

Ma la domanda è: Greenaway ha provato più a fare un biopic o un mockumentary?

Vale la pena chiederselo, dato che di quanto egli narra non è facile trovare un riscontro oggettivo, se non nelle tracce di una biografia dell'americana Marie Seton del 1952 (che tra l'altro fu l'amante del Regista russo).

Certo che quell'Eisenstein che il 21 ottobre 1931 arriva in Messico sembra tronfio della boria dei riconoscimenti artistici e di fama fino ad allora tributatigli. Ma sarà grazie alla sua guida e collaboratore locale, Palomino Cañedo, che scoprirà molte cose sul Messico ma anche su se stesso e sulla propria sessualità.

 

Eisenstein ci viene presentato come un uomo tanto capace di fissare la realtà sociale, quanto incapace di leggere la propria sessualità; un po' come il sordo-cieco che suona le campane ma non si accorge dell'effetto che produce.

Lui che si definisce un clown flaccido e inoffensivo ha il suo contraltare in Palomino, atletico e tuttofare, sposato e con prole, che lo andrà a introdurre alle gioie del sesso carnale.

E mentre anche – lontano dalla Russia – Sergei sembra perdere lo slancio rivoluzionario, si profila la vitalità di un nazione (il Messico) che formalmente cristianissimo è in realtà dotato di una cultura arcaica, pagana che vede il suo epicentro nella lotta fra la morte (i cadaveri, gli androni oscuri, le statue insanguinate dei Santi) e le pulsioni vitali (il sole, la natura, il sesso).

L'esperienza ci restituisce un Eisenstein bambino che si allontana da Guanajuato col moccolo al naso e una maschera in faccia, in una sorta di regressione identitaria che sembra profetizzare il suo triste successivo destino.

Greenaway lavora al massimo sul piano estetico, con colori, simmetrie, accessori (vedi la camera d'albergo con questo letto troneggiante al centro); usa lo splittaggio dello schermo per amplificare gli stati emotivi e si concede qualche licenza “poetica” tipo la telefonata sotto la doccia (nel Messico del 1931 !!).

Esegue - a onore del suo mito - un convulso lavoro sul montaggio che, combinando eterogeneamente foto, brani e filmati di varia natura, sembra riprodurre di cinema-saggio del regista sovietico. Ne viene fuori una giostra dei sensi stralunata, fra sesso e morte, in cui l’ossessione per il corpo di Greenaway si materializza nella centrale scena del rapporto sessuale omoerotico che lascia ben poco all'immaginazione.

Il freddo Eisenstein vierne interpretato con efficacia dal finlandese Elmer Back, una piacevole scoperta artistica.

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