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Il giovane favoloso

Regia di Mario Martone vedi scheda film

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maurri 63

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La recensione su Il giovane favoloso

di maurri 63
4 stelle

Mario Martone è stato il cinema degli anni '90: senza se e senza ma. Oggi, che quel cinema non esiste più, prova a farlo rinascere, sotto le mentite spoglie di un biopic dedicato a Leopardi, ma, nonostante le lodi sperticate di buona parte della stampa e, soprattutto, di sfegatati fan, l'operazione finisce per sminuire il valore della poesia, celebrando il trionfo retorico dell'esaltazione di un mondo che è troppo indietro per comprenderne la grandezza. A ben pensarci, però, Martone aveva già detto tutto al primo film: presentando su questi stessi lidi veneziani la sua prima opera, “Morte di un matematico napoletano”, accostava il talento del geniale Caccioppoli ad un contesto socio-culturale degradato che faceva fatica ad ascoltare le parole del professore universitario pluricelebrato. La tematica, dunque, è la stessa: un uomo solo, prigionero del suo tempo, incapace di accettarne la normale rassegnazione e la sua ribellione, attraverso i versi (per il matematico era attraverso i numeri), soprattutto in virtù di una propesnione all'isolamento in piccola parte determinato dall'accentuata scoliosi che ne deturpava la figura.

Elio Germano

Il giovane favoloso (2014): Elio Germano

l gruppo “Teatri Uniti”, cui Martone ha preso parte alla sua genesi, ha sempre inserito il Vesuvio, e dunque “La ginestra” nell'evocazione di molti passaggi filmici: in prima persona, ed in embrione di tutto quanto ora illustrato (in maniera accademica, troppo leccata, e decisamente finta), egli raccontò ne “I vesuviani” l'ascesa di un sindaco in forma metaforica, mentre sale sul vulcano spento (?) accompagnato da un corvo. Ed è quello che ripete ora: sostituendo al corvo l'amico Ranieri, Giacomo Leopardi arriva a Napoli dove, in una visione allegra e confusa – poiché parzialmente inesatta , come abbondantemente noto – s'innamora del popolo partenopeo, frequentando taverne, bevendo vino, mangiando taralli.

Mario Martone, Elio Germano

Il giovane favoloso (2014): Mario Martone, Elio Germano

La nota oleografica parrebbe stare bene, ma finisce per togliere forza all'elemento principale del film: la poesia. Infatti, la città stessa si fa forma e colore di un livello poetico irraggiungibile e i pochi versi abilmente declamati (usando in voce over accenti familistici e non adatti alla metrica dell'uomo di Recanati) sono soffocati dalla cartolina. Nonostante i consensi, la scelta di Germano è sbagliata: lo stesso aveva già interpretato un ruolo simile per Virzì (“Io e N”), agendo sulle ali di un ribelle scrittore senza causa, e stancamente si ripete, aggiungendo tic, vezzi, pose che smitizzano la figura comunque alta di Leopardi. Il dubbio amletico che però assale lo spettatore è: checché se ne dica, chiunque conosce Giacomo Leopardi. Ora, perché farci su un film ? Questi prodotti, televisivamente parlando, sono accettabili quando non sfociano nella stucchevole rappresentazione di una vita trascinata dall'A alla Zeta dell'interprete : per evitrare di ritrovarsi nuovamente destinato in maniera esclusiva sul piccolo schermo (Noi credevamo” fece questa fine) Martone si sforza: sceglie di raccontare solo tre momenti della vita del poeta, il bambino, il giovane -contestatore ? Ma se si, con chi ? Questo non è spiegato chiaramente, a poco spazio ha chi vede per trarne giudizio – l'arrivo a Napoli, ma in nessun modo amplia le conoscenze storiche del suo pubblico. Ripetitivo (come si può esserlo quando si affrontano i versi di “A Silvia” ? E chi tra i recensori o gli spettatori si accinge a citare anche solo una poesia dell'Autore ?), passa l'intera prima parte a raccontare l'esistenza a Recanati, indugiando sul particolare rapporto tra Giacomo e Monaldo, finendo per definire in costui più grandezza di quanto esista storicamente, ma soprattutto compromettendo, con un salto temporale (Firenze) la seconda, veloce parte dell'opera, dove invece il film avrebbe pouto esplodere cogliendo l'aspetto “sovversivo” del poeta, ivi rifiutato dall'ostile struttura accademica. Va qui fatto notare come, ancora una volta, nel film di Martone abbiano un grande peso espressivo le biblioteche (che non venivano risparmiate neppure in “Teatri di guerra”), ma che perdono il loro significato nella continua ripetizione cinematografica. Sembra, infatti, che il regista si sforzi di farle divenire personaggio, ma senza riuscirvi: non giova alla pellicola la durata eccessiva – 137 minuti – ma da sempre Martone ha problemi con il minutaggio, ma potevano tranquillamente potarsi molti momenti della vicenda napoletana.

Mario Martone

Il giovane favoloso (2014): Mario Martone

Appare curioso, poi, che in anni in cui l'occhio dei più importanti cineasti si soffermi sul presente, il cineasta napoletano si rifugia in un comodo ottocento: tendenza già evidenziata nel precedente “Noi credevamo”, prima citato, ma, aben vedere, l'opera omnia di Martone è permeata da un rifugio nel passato (perfino “L'amore molesto” è un viaggio in parallelo con eventi accaduti 50 anni prima del loro svolgimento). Nonostante un cast di riguardo, i costumi lindi, la perfetta definizione di bellezza di Fanny, la regalità di Elio Germano, la prestanza di Michele Riondino (Ranieri), non rendono giustizia ad un periodo illustrato e mai veramente descritto: nelle stoffe, nelle facce, nei gesti non si avverte mai la passione, la pulsione, i patemi che accompagnarono questi uomini nel percorso eccezionale che fu la loro vita, vuoi anche perché mutevoli testimoni di un tempo straordinario e difficile e non aiutano a capire se veramente Leopardi provava amore verso l'uno o l'altro sesso, come taluni hanno provato a dimostrare. Tutto già visto e risaputo.

Mario Martone

Il giovane favoloso (2014): Mario Martone

a da sé che invece di immergersi nella realtà che tenta di descrivere, l'opera si presta a discettarla (con conseguenze invero comiche: Leopardi pare dire “io so di essere un genio, voi invece fate schifo”...), senza avere però la magniloquenza di un prodotto rutilante in stile viscontiano. La lunga poesia che chiude il film - “La ginestra” - scritta a Torre Annunziata (dove il poeta è stato trascinato da Ranieri allo scoppio del colera) non presenta guizzi, né emoziona: è un altro dei difetti di un film troppo compiaciuto di sé per essere vero, profondo. In definitiva, ancorato saldamente alle sue radici, il regista non sa più raccontare l'ambiente circostante, sviluppando tematiche consunte (in fondo, quale il pubblico destinatario ? Il docente di scuola ? L'allievo ?), che, però, gli permettono un unanime consenso, senza rischiare nulla. Come nulla rischia la Rai, che lo distribuisce e poi tra qualche mese, anche meno, lo riposiziona nel suo palinsesto. Martone: ei fu...sperando che non sia questo, il suo prossimo, tutto sommato innocuo, film!

 

 

 

 

 

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