Regia di Giulia Brazzale, Luca Immesi vedi scheda film
Una messa in scena morbida, tattile, con design (sonoro e visivo) attento alle forme e movimenti di macchina fluidi. Sessualità ovunque, profusa ed esplosa in mille frammenti linguistici. Ogni componente filmica di questo debutto a quattro mani è finalizzata alla sollecitazione dell’istinto desiderante, spinto alle sue conseguenze più estreme. Così Lia, raccontata nel suo rapporto sadomasochista con Viktor, arriva ad abortire per imposizione del privato carnefice e a staccarsi da lui ripiegando in Veneto dalla zia Agata, esperta di psicomagia. Una storia coraggiosa condotta in modo anticonvenzionale e in piena libertà grammaticale. Libertà di sbagliare (nei raccordi di montaggio, in alcuni punti macchina, in qualche scelta grafica soapoperistica, nelle spiegazioni semplicistiche sulla psicologia di Lia), ma anche di sperimentare, di recuperare ciò che nel nostro cinema si è perso. Tra derive scult inevitabili (e sacrosante), percorsi nella memoria di un thriller che fu e non sa più essere (deformanti richiami onirici che ci fanno pensare a Tutti i colori del buio di Martino e a Murderock - Uccide a passo di danza di Fulci) e tentativi di surrealismo jodorowskiano (il regista di Santa sangre è presente in un cameo), Brazzale e Immesi elaborano un saggio formale sulla depressione, tanto inefficace sul piano narrativo quanto esuberante su quello estetico. Abituati alle farlocche produzioni indipendenti di genere nostrane, restiamo piacevolmente stupiti e ci auguriamo non finisca qui.
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