Regia di Haider Rashid vedi scheda film
Said è italiano, di seconda generazione. Studia, di notte fa il pane. Si dipinge la faccia come il tricolore per andare a vedere i Mondiali. Parla fiorentino con la C aspirata, canta l’Inno di Mameli e con la fidanzata pensa di sposarsi, un giorno. Poi, il suo Paese lo respinge: nessun rinnovo del visto di soggiorno, perché suo padre ha perso il lavoro e a sessant’anni non ne troverà un altro. Il ragazzo può seguirlo in una terra straniera e forzarsi a chiamarla casa, oppure imboccare la propria strada, che pur passa dalle decisioni di altri, dalle scorciatoie mediatiche di giornalisti approssimativi e dagli stop di politicanti tronfi e miopi. Non è una questione squisitamente personale, ribadisce il regista Haider Rashid, che con Said ha in comune la giovane età e un genitore straniero: iracheno il suo, algerino l’altro, tratteggiato con intensità e compostezza dall’esordiente Mohamed Hanifi. Purtroppo la stessa misura non alberga in un film troppo rapido, che talvolta si fa trascinare - con le migliori intenzioni - in una parata di inconsce didascalie ed enfatiche soluzioni. Il dramma del singolo è scandagliato fin nelle pupille, con la mdp che si incolla alla faccia percorrendone le increspature, eppure quando lo sguardo si affranca dall’uomo privato per espandere il quadro all’ingiustizia globale, perde la potenza e la grazia della spontaneità. L’urgenza di farsi ascoltare è indubitabile, la rivendicazione di un diritto (umano, prima che politico) è imprescindibile. Tuttavia, condensata in parole declamatorie, sfugge alle maglie dell’emozione.
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