Regia di Ilgar Najaf vedi scheda film
Buta è il nome azero di un motivo ornamentale, che viene ricamato sui tappeti, sui teli, sui tessuti in genere. È un simbolo a forma di goccia, che può indicare il sole, la pioggia, un germoglio, una lingua di fuoco, l’ovario di un fiore. In breve, rappresenta la vita che si rinnova. Ed è il nome dato ad un bambino, la cui madre è morta dandolo alla luce. In seguito il piccolo ha perso anche il padre, ed è stato quindi allevato dalla nonna. Il mondo, intorno a lui, è vasto e deserto come la campagna del Caucaso, solcata dai corsi d’acqua, e coperta di rocce bianchissime. C’è un fiume in cui i ragazzini fanno il bagno, e ce n’è un altro che non fa più girare la ruota del mulino, da quando il mugnaio, tanti anni fa, ha deciso di abbandonare il villaggio. Adesso l’uomo è un vecchio vagabondo che tira a campare vendendo sapone alle massaie, e per il resto vive del rimpianto per un amore perduto, e della magia di una saggezza antica. Buta continua ad incontrarlo, sul suo cammino, quando scappa dai suoi coetanei che lo disprezzano perché è orfano, o quando trasporta i sassi su per la collina. Li raccoglie sulla riva del torrente, per comporre sul prato il suo buta: un enorme disegno formato sull’erba da tante pietre candide, scelte con scrupolo, e faticosamente radunate. Quella creazione è visibile solo dal cielo, ma è da lì che giungono le rivelazioni importanti. La verità è scritta lassù, e può manifestarsi all’improvviso, una mattina, nella veste di un arcobaleno. Quella miracolosa apparizione è un messaggio universale, una curva che abbraccia un paesaggio piatto, dimostrando che la Terra è rotonda. Ed è la traccia colorata del passaggio di un amore infinito, il cui percorso inizia e finisce oltre l’orizzonte, come il cuore di una madre mai conosciuta, però costantemente presente, col suo sguardo vigile e premuroso. L’al di qua è una realtà assorta e sperduta, dove non accade mai nulla, e nessuno desidera che le cose che cambino, benché tutti sembrino in attesa di un tempo nuovo, in cui la modernità venga a svegliarli da un sonno millenario, popolato di sogni bellissimi. Sono frammenti di visioni mitologiche, che proiettano le immagini della speranza sulle ali degli angeli: su un aquilone di carta arancione, sulla fiancata dipinta di un furgone, su uno stormo iridescente di bolle di sapone. La salvezza arriva in volo da lontano, a bordo della sua leggendaria semplicità, che la rende ingenuamente evidente nel suo incanto infantile. Il film di Ilgar Najaf è un morbido tuffo in un passato che è l’eterno presente di coloro per i quali il futuro è il traguardo finale, irraggiungibile perché collocato oltre il limite del tempo. Un paradiso a cui si pensa con timorosa devozione, con l’animo palpitante per la prima esperienza di vita.
Buta ha rappresentato l’Azerbaijan al Premio Oscar 2013 per il miglior film straniero.
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