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Joe

Regia di David Gordon Green vedi scheda film

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La recensione su Joe

di Spaggy
6 stelle

David Gordon Green sembra averci preso gusto con le amicizie al maschile e con i rapporti di solidarietà che si creano in ambienti ostici. A pochi mesi dalla presentazione di Prince Avalanche a Berlino e al Sundance, il regista di Lo Spaventapassere porta in concorso a Venezia Joe, la storia dell’insolito legame che si crea tra due antieroi ai margini della società. In un piccolo centro degli Stati Uniti, in una landa persa in mezzo al nulla e sospesa nel tempo, Joe porta in scena l’omonimo romanzo di Larry Brown affidandolo alle interpretazioni di un ritrovato Nicolas Cage (ennesimo parrucchino ma finalmente una prova attoriale da ricordare, giocata spesso anche sul filo dell’ironia) e di un sorprendente Tye Sheridan, impegnati rispettivamente nella parte del protagonista eponimo e dell’adolescente Gary.

Entrando in scena in medias res, piano piano cominciamo a conoscere i due personaggi e a reperire tratti della loro personalità e del passato. Sin da subito, entrambi sono descritti sin da subito come individui ai margini della società: seppur integrato nella comunità circostante che lo considera quasi come un piccolo giustiziere e un aiutante per tutte le occasioni, Joe è un individuo solo che ha passato ben 28 anni della sua esistenza ad entrare ed uscire di prigione per non essersi mai abituato alle regole imposte dalla giustizia degli altri. Con un gergo più comune, lo si può definire un testacalda, uno che per i suoi comportamenti ha perso famiglia e bussola, pur credendo sempre in un codice etico degno di condivisione. Di lui, poco conosciamo e si apprendono particolari biografici sommando i piccoli indizi che la sceneggiatura dissemina spesso in dialoghi all’apparenza poco importanti. Il quindicenne Gary, invece, viene subito circoscritto nel suo ambiente di appartenenza: vive in una baracca vicino a un fiumiciattolo, tra immondizia, rottami ed erbacce, con una famiglia che “nessuno può cambiare”, come gli ricorda la madre. Con una sorella che ha smesso all’improvviso di parlare e un padre violento il cui unico interesse è l’alcol, Gary trova lavora grazie all’incontro con Joe, caposquadra di un gruppo di operai che avvelena alberi per favorire l’industria del legname.

I punti di contatto tra Joe e Gary diventano presto chiari: entrambi sono lo specchio di una personalità unica. Testardi, caparbi, assetati di speranza (non a caso, Joe ha un cane che si chiama Faith, fede) e desiderosi di farsi da sé dal momento che la vita ha negato loro tutto, i due si riconoscono l’uno nell’altro e cominciano a legare, instaurando una dipendenza reciproca che li aiuta a crescere e a comprendere che non sempre auspicare il meglio porti alla salvezza fisica.
In un contesto da western, in cui saloon e bordelli affiancano sceriffi solidali o agenti poco inclini ai capricci di un singolo pistolero, si alternano riti quotidiani tribali (come lo scuoiamento di un cervo) e malsane abitudini da taverna, risse senza un vero perché e dialoghi coloriti, pompini e cani assassini, prima di arrivare a un tragico epilogo che, mescolando temi e problemi, ristabilisce un ordine e lascia sperare nel cambiamento. Che Joe sia in definitiva un brav’uomo è evidente nel sacrificio a cui è chiamato per garantire all’amico/figlio/riflesso un futuro migliore e che lo eleva al rango di “salvatore”.

Furbescamente diretto, fotografato in maniera eccelsa ma musicato banalmente, Joe non avrebbe sfigurato al Sundance, una collocazione sicuramente migliore per un film che segue tutti i crismi del cinema indipendente d’America, compreso un epilogo tanto drammatico quanto prevedibile.

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