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Approved for Adoption

Regia di Laurent Boileau, Jung vedi scheda film

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La recensione su Approved for Adoption

di OGM
8 stelle

Non ci sono solo le grandi migrazioni di massa. Lo sradicamento può anche essere un fenomeno che riguarda pochi, in un dato momento storico, e che avviene silenziosamente, toccando i singoli individui uno a uno. Jung Sik-Jun ha lasciato la patria quando era un bambino. Un orfano, per la precisione, costretto a vagare da solo per le strade, cercando riparo come poteva, e cibandosi di rifiuti. Fino a che un poliziotto, incontrandolo, l’ha preso per mano e l’ha portato in un luogo di raccolta destinato ai piccoli come lui. Un ricovero, ma solo temporaneo, destinato, in realtà, a essere la stazione di partenza di un viaggio lunghissimo, e senza ritorno. Jung – un personaggio reale, un disegnatore dal cui fumetto autobiografico è stato tratto questo film – non ha mai saputo nulla dei suoi genitori naturali. I suoi tratti somatici rivelano però un’origine mista: lui, come tanti ragazzini dalla pelle color miele, è nato una donna coreana e da un uomo occidentale, probabilmente un militare appartenente alle forze americane ed europee, venute ad affiancare le truppe di Seul nella guerra contro il governo di Hanoi. Ancora oggi, a quarant’anni di distanza, ignora se sua madre sia morta, o l’abbia semplicemente abbandonato, per sottrarsi alla vergogna derivante da un rapporto considerato scandaloso. La sua storia inizia nel momento in cui, all’età di cinque anni, viene avviato verso una nuova vita, lontano dalla sua terra, in un paese tanto diverso dal suo, e del quale non conosce nulla, a cominciare dalla lingua. Jung viene adottato dai signori Henin, una coppia di coniugi belgi, che hanno già quattro figli. Per il piccolo forestiero non sarà facile diventare uno di loro, nonostante l’affetto e la simpatia da cui viene subito circondato.  Jung crescerà sentendosi irrimediabilmente diverso, malgrado la presenza, nella stessa cittadina, di numerosi suoi coetanei con gli occhi a mandorla, accomunati  dallo stesso singolare destino. Ciò che per lui (e non solo) è fonte di una crisi profonda ed insolubile, è l’impossibilità di capire  gli esatti termini di quella vistosa differenza che lo distingue dalla gente del posto. Jung sa di provenire da un altrove che gli è totalmente sconosciuto, e al quale quindi non può rivolgersi per costruirsi un’identità veritiera e ben definita. Dietro la spensieratezza dei giochi e degli scherzi – testimoniati da spezzoni di video casalinghi, inseriti nel film – rimane un interrogativo senza risposta, che impedisce ad un io senza radici di svilupparsi secondo i principi della propria appartenenza culturale. Alla mancanza di un fondamento concreto si può, per fortuna, sopperire con l’immaginazione. Jung, durante il tumultuoso periodo dell’adolescenza, si inventa di essere giapponese, e si convince di amare i manga e il karate. È una stravaganza che gli infonde sicurezza, anche se gli erige intorno un muro di incomunicabilità, aggravando il suo senso di isolamento. A pensarci, potrebbe sembrare difficile, con un cartone animato, trasmettere l’idea di un vuoto che l’allegria dell’infanzia può solo temporaneamente velare con gli intensi colori della fantasia. I disegni riempiono tutto lo spazio con le loro sagome variopinte, dai contorni netti e distinti, ma, in questo caso, la realtà che ritraggono è un’incertezza che esce dai margini, per contaminare la cosiddetta normalità con il germe della sua inspiegabile angoscia. In questo liquame dell’anima Jung intinge il pennello, mentre affida la sua verità ai tratti plastici e decisi della sua arte viva e piena di chiaroscuri, sensibile e curata nei particolari, però duramente scolpita in una teatralità stilizzata e rigidamente composta. A movimentare il quadro intervengono, ripetutamente,  in­serti grafici nello stile del bozzetto, a raffigurare, con una coreografia surreale e multiforme, gli incubi ed i sogni ad occhi aperti del protagonista. È in quelle visioni, rubate agli abissi della coscienza, che la sua martoriata interiorità si rivela, a distanza di tempo, ritornando a soffrire come allora.   Sono sguardi rivolti allo sfondo inesistente della sua vita, nel quale egli spesso ha creduto di precipitare. Sono gli stacchi dell’obiettivo sul cuore pulsante di un’inquietudine che appartiene alla marginalità della Storia. Un’individualità che si racconta con un approccio maturo ed analitico, ma mentre parla, cercando le parole più belle, autentiche ed appropriate, a tratti trema ancora di paura.

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