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Un castello in Italia

Regia di Valeria Bruni Tedeschi vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Un castello in Italia

di Theophilus
2 stelle

UN CHÂTEAU EN ITALIE

Un château en Italie o Un castello in Italia? Che sia questo il problema, il dilemma?

Valeria Bruni Tedeschi, qui nel ruolo di regista (al suo terzo lungometraggio), di interprete del film e di se stessa non è né carne, né pesce. È semplicemente frammentaria, fuori schema e appare sempre nervosamente e affannosamente a disagio: sembra priva d’identità.

Il film è una collezione di sciatterie, tanto da chiederci se siano gli attori e la storia ad essere impacciati, oppure se ci troviamo di fronte alla descrizione centrata di un dato esistenziale che forse sarebbe stato meglio tenere per sè.

La Bruni Tedeschi porta sullo schermo le vicende reali della sua famiglia, qui denominata come Rossi Levi. Viene mostrato il declino economico di un gruppo industriale piemontese e l’impietosa situazione in cui la famiglia, residente in Francia, è costretta alla dismissione di una sontuosa proprietà immobiliare e all’alienazione dei beni in esso contenuti. La condizione descritta mette a disagio. Ci può essere tutta l’umana comprensione nei confronti di un tramonto sociale e della decadenza dei singoli membri di una famiglia su cui il destino sembra accanirsi.

Proprio per questo sarebbero stati necessari mezzi espressivi molto più efficaci e una franchezza e un coraggio diversi per svelare una condizione di complessa fragilità.

Ci sembra, invece, che Valeria Bruni Tedeschi non se la sia sentita o non le sia riuscito di passare quel guado e sia rimasta in un limbo che denota tutti i suoi limiti. Al posto di un dramma puro, ci troviamo davanti ad una situazione che rischia spesso di trascendere in una stiracchiata e forse involontaria comicità.

A partire da Louis Garrel, per anni reale compagno della Bruni Tedeschi, che ci sembra mal gestire il compito di narrare se stesso. La sua figura appare addirittura artificiosa anche solo nell’espressione verbale, nell’uso della sua lingua madre che avvertiamo quasi innaturale, forzata. Nathan, questo il suo nome nella ricostruzione scenica, appare, scompare e riappare con una poco credibile disinvoltura. Dice apertamente a Louise/Valeria di volersela solo spassare senza tanti problemi, in barba al desiderio di maternità di lei. La lascia, ma poi fa la scenata di gelosia perché, trasformatosi in segugio, fiuta il profumo di lei nella sciarpa che trova a casa del padre, indizio di una relazione passata.… Rientra, infine, inopinatamente nella vita della donna e chiude il film con tanto di saltello e fermo immagine che forse vuole ricostruire certe atmosfere alla Truffaut.

Xavier Beauvois, non crediamo nel ruolo di se stesso, ritorna improvvisamente da un passato che l’avrebbe visto innamorato follemente di Louise e ora sembra voler batter cassa perché rischia la prigione, ora dice di non sapere che farsene dei soldi e pare intenzionato a rientrare nella vita della donna. C’è parso il più forzato di tutti.

Stentiamo a concedere una patente di credibilità scenica anche al pur bravo Filippo Timi, qui  Ludovic, il fratello ammalato di aids di Louise. I due sembrano condividere un affetto quasi incestuoso oltreché un risolino forzato che non riesce a penetrare drammaticamente nel tessuto della storia.

La scena fra le suore santone a Napoli per realizzare il sogno di maternità fa pensare più al bisogno frustrato di una squilibrata che non a quel desiderio fortissimo che sembra appartenere solo alle donne, anche se non a tutte.

Il cameo di  Omar Sharif, con la sua presenza muta all’asta londinese per piazzare un Bruegel – con tanto di pentimento tardivo da parte di Louise – ci è parso francamente niente di più che un inutile dispendio economico.

Salviamo forse solo la figura della madre, Marisa Borini, che ha il suo bel da fare per tenere insieme i cocci familiari e del lungometraggio.

Alla fine, non si sa se pensare se la vita della Bruni Tedeschi sia stata costellata di una sequela di banalità o se il film sia grottescamente offensivo. Ovviamente ci auguriamo, per lei, la seconda ipotesi.

 

Enzo Vignoli

16 novembre 2013

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