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Un castello in Italia

Regia di Valeria Bruni Tedeschi vedi scheda film

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La recensione su Un castello in Italia

di giancarlo visitilli
6 stelle

Anche i ricchi piangono. “Son stupidi e tirchi”. Possono avere un impero e “svenderlo per un tozzo di pane”. Un auto-assolvimento. E’ duro il perpetuarsi di alcune espressioni, nel nuovo film, dal gusto agrodolce, di Valeria Bruni Tedeschi, che riesce a mettere in centro quattro minuti di pellicola un’infinità di temi, dall’amore, alla famiglia, passando attraverso quello della solitudine, della morte e della religione. Merito di una co-sceneggiatura a sei mani (co-firmata da Agnès De Sacy e Noémie Lvovsky).

In parte autobiografica, la storia è quella dell’amore fra Louise, quarantatreenne, che ha abbandonato una promettente carriera da attrice, e Nathan, molto più giovane di lei, durante un momento in cui la famiglia di Louise vive un drammatico declino. Infatti, a causa di suo fratello Ludovic, gravemente malato, e per l’ammontare dei debiti, la famiglia, che fra l’altro ha vissuto anche la perdita del padre, per mezzo di una madre, rimasta sola a risolvere tutti i problemi, è costretta a vendere la grande casa di famiglia. Si tratta di un castello italiano.

Come già nel precedente film, Attrici (2007), Valeria Bruni Tedeschi attinge dalla sua esperienza autobiografica, anche rispetto a certe scelte registiche: nel cast ci sono sua madre (Marisa Borini) e l’ex marito (Louis Garrel), ma anche la storia racconta della ricca famiglia italiana trapiantata in Francia, i Rossi Levi, in cui è evidentissimo il richiamo agli industriali Bruni Tedeschi. Ma quello che c’è di più personale riguarda la malattia di Ludovic, che altri non è che Virginio, il fratello vero della regista, a cui il film, fra l’altro, è dedicato. A tal proposito, anche per la madre, che recita nella parte di se stessa, non deve essere stato così semplice. Una catarsi.

Bisogna riconoscere che il cinema della Bruni Tedeschi conserva una sua caratteristica, non solo nel saper dosare i generi, nella commedia si fa spazio al dramma, ma senza alcuna ridondanza o gusto eccesivo. La regista è molto attenta a mantenere il giusto equilibrio, per non cadere nel facile sentimentalismo, affidandosi ad una certa ironia e gusto per l’ottimismo, nonostante tutto.

Semmai, la pecca del film, consiste nella troppa approssimazione ad un certo gusto per l’umorismo: dalla donna che si reca nel santuario dove c’è la sedia ‘gestatoria’ per le donne che non possono avere figli, alle scene in cui la protagonista, isterica, litiga con un’infermiera per l’appartenenza dello sperma con cui sarà fecondata.

Bravi gli attori, un ottimo ritorno del sempre straordinario Filippo Timi, smagrito da paura. Un film, tutto sommato, ambizioso ma abbastanza semplice e sincero, da far mettere da parte anche quei difetti che ci sono, soprattutto intorno alla retorica borghese, che non riesce mai ad innalzarsi a quell’indifferenza di moraviana memoria. Stringente, urticante. Che manca al cinema, come in letteratura.

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