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Uomini di parola

Regia di Fisher Stevens vedi scheda film

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La recensione su Uomini di parola

di M Valdemar
6 stelle

Dietro la fissità apparente che abita la faccia di Christopher Walken si cela un crogiolo di sentimenti contrastanti che si palesano man mano che l’arco narrativo scaglia le sue frecce facendosi strada tra varchi esistenziali e traiettorie schizzate da commedia drammatica.
Il suo Doc è un uomo che cammina in compagnia della sua solitudine (alleviata dall’arte di dipingere così come dal frequentare ogni giorno la stessa locanda per fare colazione), dell’avanzare della vecchiaia e degli inevitabili acciacchi (e farmaci), dei ricordi nitidi e lontani di un trascorso criminoso, nonché di una minaccia incombente, pressante, feroce che lo tormenta da ben ventotto anni. Un solo modo per liberarsene: far fuori il vecchio amico e complice d’un tempo, un Al Pacino (Val) appena scarcerato (dopo gli stessi ventotto anni di permanenza in prigione), l’altra faccia (da schiaffi) di una coppia sul punto di scoppiare: andatura claudicante, pancia che sembra fungere da (incerto) navigatore, e una gran voglia di fare baldoria ché sa benissimo cosa lo attende.
L'inizio, lento, rallentato come i movimenti fisiologicamente fiacchi di chi sente il fiato della fine sempre più prossimo, dura un po’, giusto il tempo per dar modo ai due appena ritrovatisi di provare quel necessario senso di imbarazzo al quale presto si sostituiscono nostalgia, rimpianti, rimorsi.
Ma quelli non sono dei tizi propriamente “normali”, e difatti dopo una capatina (non fortunata) nel bordello di una assai divertente Lucy Punch che pare venire direttamente dagli anni sessanta, parte una sfrenata, assurda, grottesca sarabanda di eventi e incontri.
Quasi un fuori orario parecchio (pure troppo) fuori di testa, tra un Pacino che sniffa qualsiasi cosa gli capiti a naso (tipo farmaci per l’ipertensione) e si mangia una bella manciata delle note pilloline blu (il ritorno a casa Punch è più felice, quattro volte più felice), non senza conseguenze, e un Alan Arkin “liberato” da un ospizio che pigia come un matto sull’acceleratore di una potente auto rubata (tanto quanto la sua magnifica presenza fa aumentare i toni brillanti) e, come ultimo desiderio, si lancia in un ménage à trois (facendo impazzire le partecipanti).
E quando si fa notte, il folle tour è appena cominciato: inseguiti dalla polizia (in un batter d’occhio seminati), i  nostri trovano nel bagagliaio una ragazza nuda alla quale dei brutti ceffi hanno usato violenza. Ok, per i bravi ragazzi - criminali di un'epoca e di uno stampo differenti - è obbligo morale aiutarla e fare giustizia (perché quando si commette un’azione così disgustosa ci sono delle conseguenze, e loro “sono le conseguenze”): pallottole e pugni si sprecano, così come la saggezza di lasciare i carnefici nella mani della (ex) vittima armata di mazza da baseball (fuori campo, sentiamo l’urlo di chi ha ricevuto evidentemente un colpo nelle parti basse).
Eppure, tra una capatina all’ospedale e una serie di visite alla locanda tanto amata da Doc (s’intuirà in tal senso il ruolo della gentile cameriera Alex), la resa dei conti s’avvicina (entro le dieci della mattina deve compiersi il fatto) e con essa l’aria di un qualcosa di tragico e definitivo che incombe (il funerale improvvisato è un anticipo).
Dopotutto il miscuglio, il contrasto di sentimenti che anima Val e Doc, con quel loro mirarsi, rispettarsi, temersi, s’agita a tal punto che non può che portare a una soluzione possibile. E così dopo la struggente telefonata di Doc ad Alex (il momento più emozionante del film), comincia la mission impossible: con le pistole impugnate in entrambe le mani e lo sguardo deciso di chi sa di aver fatto la scelta giusta parte l’attacco al burattinaio.
Ma i colpi, il sangue, le vetrate infrante non possono banalizzare e cannibalizzare scena, storia e uomini: la macchina da presa (brillante intuizione) se ne infischia, s’apre verso l’orizzonte e vola in direzione di un’altra alba: Doc, sei pronto a dipingerla per l’ultima volta?
Se il bel finale (non) lascia dubbi sulla bontà e la riuscita dell’intera operazione, qualcosa non funziona con diversi eccessi e trovate, forzature, da commedia grottesca che a tratti fanno intraprendere una deriva farsesca, e rischiano altresì di far deviare l'approfondimento delle tematiche verso la superficie.
Comunque a rendere prezioso Uomini di parola, nonché a dimenticarsi delle “musiche” di Jon Bon Jovi, ci pensa il cast (compresi i comprimari): impagabili Al Pacino, che gigioneggia a modo suo (anche se il suo ballo in coppia non è certo illuminante come quello di Scent of a Woman), e Alan Arkin formidabile spalla, è Walken, dolente, sincero, a spiccare, elevandosi a guida (per riconoscere i propri peccati) toccando vette in(de)finite col suo volto intenso.
 

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