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Punk's Not Dead

Regia di Vladimir Blazevski vedi scheda film

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La recensione su Punk's Not Dead

di OGM
8 stelle

Il candidato macedone al premio Oscar 2012 per il miglior film straniero è una storia di rock. Arrabbiato, nostalgico, e purtroppo fallito. Mirsa, diciassette anni fa, era il cantante di un complesso punk.  La sua musica faceva parte di un capitolo della cultura e dell’arte di un Paese – la Jugoslavia - che si credeva moderno ed occidentale, e invece si è improvvisamente scoperto tremendamente vulnerabile all’integralismo religioso e all’intolleranza. A Skopje i segni della guerra ci sono ancora tutti. Edifici fatiscenti, strade sporche, capre che brucano nelle aiuole incolte. Lo stesso Mirsa, con i suoi quarant’anni ancora da compiere, è ridotto a un rudere. Si fa mantenere dall’anziana madre Milka, e, di tanto in tanto, si fa dare qualche soldo da Gzim, un pusher albanese per il quale svolge piccoli lavori. Le sue uniche consolazioni sono l’alcol e la droga, mentre il futuro è un pensiero che non si può permettere.  La frammentazione dei Balcani è la diaspora di un sogno, dell’illusione di poter essere una nazione europea, produttiva e al passo coi tempi. Le armi hanno creato un deserto, sul quale la pace non ha saputo costruire nulla. Il filo del discorso si è perso per sempre. La stessa sorte è toccata alla band di Mirsa, i cui componenti si sono sparpagliati per il territorio, imboccando strade diverse, a volte curiosamente alternative, a volte palesemente sbagliate. Tutto avviene all’ombra di una riconciliazione che si erge, sull’irrimediabile desolazione morale e materiale, come un grottesco cartellone pubblicitario: su questo campeggiano gli slogan new age insieme alle camionette bianche dell’IFOR, ma gli slogan servono soltanto da copertura al mercato nero della disperazione, che si vende per una criminale speranza di salvezza. Anche l’inatteso ritorno sulle scene di Mirsa e compagni avviene sotto il patrocinio delle buone intenzioni: il loro ingaggio, su iniziativa di una non meglio identificata ONG, prevede un’esibizione a Debar, una cittadina a maggioranza albanese, e, in nome della serena convivenza tra i popoli, il gruppo sarà integrato con alcuni musicisti locali. Lo sfacelo coltiva le proprie ipocrisie, sotto l’egida delle potenze straniere che, dopo aver ritirato le truppe, continuano ad appiccicare le icone dei propri ideali di uguaglianza e libertà su realtà logore ed esauste, che chiedono solo di avere un po’ di tregua per poter riordinare le idee.   Mirsa è l’uomo azzerato il quale, nell’attesa che la situazione si chiarisca e riprenda a sembrare normale, preferisce astenersi da ogni presa di posizione, vivacchiando come capita alle spalle di una società che  non pare avere nulla di importante da fare. Sua madre, alla sua veneranda età, posa nuda per una scuola di pittura. Il suo amico Lajak si sceglierà come amico un ranocchio, che battezzerà Ferdinand. Nel generale smarrimento, ci si arrangia con ciò che si trova, senza lasciarsi condizionare dal senso del ridicolo. In questo quadro penosamente impazzito, affetto da una stravaganza malata e priva di fantasia, l’imbelle cialtroneria di Mirsa, che trasforma il disfattismo in una sorta di nobile distacco, è forse l’unica possibile forma di dignità.  È una realistica amarezza che si fa sussiego, indossato come una corazza per non lasciarsi contaminare da un ambiente infettato dall’incapacità di affrontare la fase del ripensamento, avviando una necessaria autocritica. Mirsa si rifiuta di lasciarsi dire da altri ciò che deve fare; il suo andare allo sbando è l’espressione di un diritto all’autonomia, esercitato nell’unico modo compatibile con le rovinose condizioni al contorno. È il suo modo di dimostrare di non essere morto, opponendosi alle smanie di sopravvivenza di un concetto di popolo che la violenza fratricida ha spazzato via per sempre. La sua ribellione è la scelta di fregarsene, di non credere, di non rimboccarsi le maniche, di non perdonare, di non ricominciare, restando a guardare in faccia quel poco che è rimasto, di sé e del mondo, e trattandolo come si merita. Il titolo Punk’s Not Dead fa il verso ai revival, ai grandi ritorni, che non hanno il coraggio di accettare il tramonto della gloria e l’irreversibilità delle sventure che lasciano il segno. Talvolta le premesse cambiano, e nulla potrà più essere come prima: persino la voce giovane e graffiante della rivolta può passare di moda, e risultare stonata, anche quando ci sarebbero tutti i motivi per urlare la propria protesta. Ciò che è stato spaccato è destinato a rimanere diviso, e l’unico rimedio è l’irresistibile forza  di una sprezzante ironia.

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