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Hitchcock

Regia di Sacha Gervasi vedi scheda film

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La recensione su Hitchcock

di alan smithee
4 stelle

I remake dei capolavori hitchcockiani non hanno mai goduto di particolare fortuna, e si sono rivelati, con una sola eccezione sino ad ora, delle cocenti delusioni o delle vere e proprie bufale; per non parlare allora di quegli azzardati e apocrifi remake terrificanti, come avvenuto in pieni anni ’80 con il devastante scellerato seguito de “Gli uccelli”, ad opera del mio omonimo “scaricabarile e capro espiatorio” Alan Smithee, nome che come si sa nasconde le gesta (spesso infami causate da inettitudine, altre volte invece in quanto influenzate da problematiche non preventivate a priori) di malaugurate o semplicemente "sfigate" produzioni dalla vita tormentata o comunque nate sotto una cattiva stella.
Tutte dicevo tranne quel singolare esperimento datato 1998 col quale un regista abile, ma per nulla avvezzo a quel genere cinematografico del maestro del brivido come Gus Van Sant, si è prestato, forse quasi più per una sfida od ossessione personale, a “riprodurre” per filo e per segno quel capolavoro ineguagliato di suspence che è e rimane Psycho. Una esperienza probabilmente fine a se stessa, ma certamente interessante, da lezione di cinema più che da indirizzare al pubblico indistinto.
Inoltre se ricordate ne “Il confessionale” del 1995, si può invece notare, come fenomeno un po’ controverso ma tutto sommato positivo, l’interessante tentativo di Robert lepage di inserirsi nell’ambito dell’intricato allestimento sul set canadese del celebre “The confession” con Monty Clifft, che una elaborata e a tratti disinvolta sceneggiatura trasforma in un giallo nel giallo, ardito ma anche piuttosto appassionante ed originale.
Qui invece nel film che ci riguarda ora, torniamo in territorio “Phyco”, per vederci raccontare, con una accurata ricostruzione d’epoca che sa però molto di cartapesta e di manierata confezione plastificata, la genesi di quel capolavoro del brivido che riportò ai massimi livelli un regista sessantenne tra i più noti al mondo, molto prolifico con i suoi 47 titoli all’attivo ma, almeno apparentemente, a quel tempo un po’ a corto di ispirazione.
Il film non ci risparmia affatto le famose ossessioni del maestro, così come si dilunga, pure con un certo interesse, nelle vicissitudini familiari piu' private del grande regista, certamente meno note al grande pubblico: un uomo tutto dedito al suo lavoro e anche un po’ tronfio se vogliamo (ben diverso dal regista schivo e modesto che traspare dalla splendida intervista di Truffaut nel celebre “Il cinema secondo Hitchcock", ma comunque...) apparentemente freddo e distaccato nei confronti della sua Alma, ma in realtà uomo geloso e molto più appassionato di quanto non volesse mostrare.
Il problema più evidente del film è che nel dar vita ad un personaggio da sempre così imitato e a tal punto inevitabilmente macchiettistico come Hitchcock, lo stesso (altrove) ottimo Anthony Hopkins, piuttosto verosimilmente riconosciuto pressoché unanimemente tra i migliori attori viventi, sceglie, probabilmente influenzato da una precisa scelta registica, la via dell’imitazione fisica maniacale, soffermandosi su tic, forzature e boccucce che francamente non ricordiamo proprio nel maestro della suspence e che comunque anche fossero vere ci risultano alla fine stucchevoli e eccessivamente manierate o fini a loro stesse. Meglio allora la prova tenace di Helen Mirren, coinvolta a dar vita ad un personaggio per troppo tempo lasciato nel grigiore del secondo piano, ma in effetti figura decisiva ed essenziale che giustamente (se bisogna dare un merito ad un film piuttosto fiacco e scontato come il presente) si riscatta di tutti i meriti fino ad ora esclusivamente riservati al celebre regista. Scarlett Johansson e Jessica Biel sono rispettivamente due adeguate e sin troppo belle Janet Leigh e Vera Miles mentre James D’Arcy incarna un Anthony Hopkins lasciato un po’ troppo in secondo piano, ma in fondo credibile e pertinente sia fisicamente sia caratterialmente.
Il film in definitiva, pur trattando vicende molto intime e accennando ad una crisi creativa che dunque evidentemente non risparmia neppure le menti più ispirate e prolifiche, e che di per se’ dovrebbe essere l’elemento più interessante della vicenda, rimane invece un po’ troppo superficiale ed ancorato ad una rappresentazione del dorato mondo hollywoodiano di fine anni Cinquanta, e come tale piuttosto macchiettistico e superficiale, mentre la direzione, lasciata nelle mani di uno sconosciuto come Sacha Gervasi, probabilmente senza troppe colpe se non l’inesperienza per risultare ancora un po’ immaturo o poco avvezzo a dominare una materia così di dominio pubblico e personalità artistiche certamente impegnative, non riesce a manifestare quel carattere o quella personalità che sarebbero state necessarie per dominare una trama così “ufficiale, evitando manierismi a nostro avviso pedanti e superficiali e ancor più imitazioni e tic da show televisivo che troppo spesso funesta i nostri distratti attimi dedicati al piccolo schermo.
  

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