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Habanastation

Regia di Ian Padrón vedi scheda film

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La recensione su Habanastation

di OGM
8 stelle

Cuba non è come ce l’aspettiamo. Perché Cuba è due mondi insieme. Questo film inizia come un telefilm americano, con una donna bionda che esce dalla sua villetta con giardino e sale sul SUV per portare a scuola il suo bambino, vestito con l’uniforme dell’istituto che frequenta. Durante il tragitto incrocia due ragazze che fanno jogging lungo il bordo della strada, e le prende in giro, perché non si tolgono il trucco nemmeno per correre. Solo quando il piccolo Mario, detto Mayito, viene invitato, dal preside, a leggere un proclama sul Primo Maggio davanti ai suoi compagni ordinatamente allineati nel cortile, ci rendiamo conto che quello non può essere suolo statunitense. Tuttavia lo straniamento continua, tenuto in vita dal formalismo di stampo borghese suggerito da quelle uniformi da collegiali con la camicia bianca, da tenere rigorosamente dentro i pantaloni. E poi, durante la ricreazione, gli alunni parlano di playstation e si scambiano videogiochi. Il castrismo sembra infinitamente lontano: lo è, soprattutto, dalla famiglia di Mayito, il cui padre è un jazzista di fama internazionale, visibilmente facoltoso e dedito ad una vita di stampo occidentale. Bisogna andare avanti, nella storia, per rendersi conto che quella ritratta nelle prime scene è solo una piccola isola del privilegio, circondata da un universo in cui il tempo del progresso non è mai arrivato, e la vita è racchiusa nella triste autarchia dettata dall’embargo. Basta un attimo di distrazione, e Mayito, uscito con la classe per partecipare ad una manifestazione pubblica, si smarrisce. Perde il contatto col gruppo, poi crede di averlo ritrovato, sale su autobus convinto di tornare a casa, e invece finisce dalla parte opposta della città, in un capolinea affacciato su un rione popolare, in cui le strade sono budelli sterrati e le case sono baracche o poco più. Qui abita Carlos, un suo compagno di scuola, orfano di madre e col padre in carcere, che vive con la nonna in un monolocale, e si guadagna qualche soldo rivendendo le bottiglie vuote abbandonate in giro. In quel quartiere, chiamato La Timba, i ragazzi sono divisi in bande, che fanno a botte e rubano, e, solo quando possono, giocano con quello che riescono a rimediare. Persone e animali si dividono il poco spazio vitale, ingombro di rifiuti e di sporcizia, ma anche di vita tracimante, che deborda da quegli angusti interni per stendere i panni sui fili tesi da un lato all’altro della via, come gli addobbi di una festa patronale. Il disagio materiale trova il suo sfogo uscendo dalla tana per conquistare il suo pezzo di terra esposto al sole, e di tanto in tanto generosamente bagnato dalla pioggia.  Mario impara da Carlos la gioia di lanciare i sassi in un ruscello fangoso e di togliersi le scarpe per tirare quattro calci ad un pallone in mezzo al pantano, mentre un acquazzone gli infradicia i vestiti. Sguazzare nella povertà è un’esperienza che quel piccolo figlio del benessere non avrebbe mai potuto immaginare, se fosse sempre rimasto nel suo ambiente, agiato e protetto. La sua fantasia, inscatolata negli schermi dei lettori DVD, non ha nulla della sconfinata creatività insita nell’atavica arte di arrangiarsi, e che, in quel luogo, è sublimemente rappresentata da un uomo tuttofare capace di riparare, con pochi mezzi, apparecchi di ogni genere. Il suo motto, aquí todo tiene arreglo, che è l’insegna della sua piccola attività artigianale, è la sintesi di un modo di vivere che asseconda la miseria semplificando l’esistenza, così da rendere più visibili le risorse che sono a portata di mano, ed i percorsi che portano alla soluzione dei problemi. Quella gente, costretta a scavare con le mani nella materia prima della vita, passa l’aratro e sparge la semenza dove altri raccolgono i frutti maturi. Stando in compagnia di Carlos, Mayito scopre il contatto con la terra nuda, anziché coperta dal cemento e dall’asfalto dei complessi residenziali, dove, in quei prati bagnati dagli spruzzi geometrici degli irrigatori automatici,  perfino la natura ha l’aspetto di un artificio programmato. Non importa se, fuori da quella studiata sicurezza, si corrono pericoli e ci si può fare male:  ciò che conta, è che quel contesto sgangherato sia il  tumultuoso regno della spontaneità,  nel quale, mentre da un lato imperversa la rabbia, dall’altro l’amore è libero di sgorgare ed attecchire al primo sguardo. Habanastation è il ritratto di un contrasto che, nella spregiudicatezza dell’infanzia, diventa un affettuoso abbraccio tra gli opposti. Il paesaggio è intriso di colore locale, ma pittoreschi risultano soltanto gli adulti, con i limiti e le manie che ne fanno personaggi da commedia. I bambini, invece, sono ancora esseri plasmabili, in grado di farsi modificare dall’incontro con la diversità, dando all’altro un pezzo di sé, e ricevendone uno nuovo in cambio.

 

Habanastation è il primo lungometraggio del regista cubano Ian Padrón, ed è stato coprodotto da La colmenita, una compagnia di teatro infantile, formata da bambini attori, cantanti e ballerini,  e fondata a L’Avana agli inizi degli anni Novanta. Nel frattempo ha conquistato fama internazionale, divenendo una delle associazioni ambasciatrici dell’UNICEF.   Nel 2012, il film è stato scelto per rappresentare Cuba agli Academy Awards. 

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