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C'era una volta a New York

Regia di James Gray vedi scheda film

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La recensione su C'era una volta a New York

di ed wood
10 stelle

Quando si dice "una sceneggiatura a prova di bomba"...Non capita quasi più, parlando di film contemporanei. Uno dei problemi endemici del cinema USA dell'ultimo ventennio, foriero di innegabili complessi di inferiorità nei confronti dei "classici", è la generale carenza di script solidi, articolati, equilibrati, capaci di coniugare densità e chiarezza. Gray fa eccezione. E infatti "The immigrant" è niente meno che un capolavoro. La carriera di questo cineasta newyorkese, giunta all'opus n. 5 nell'arco di un ventennio, è stata tutta un crescendo. Già "Two Lovers" era un gioiello che reinventava il melo, innestandolo su stilemi noir e suspense hitchcockiana; "The immigrant" fa un ulteriore passo in avanti, perfezionando una delle poetiche più personali del cinema statunitense dei nostri tempi. Quello che stupisce di Gray è l'assoluta coerenza del suo immaginario, del suo nucleo tematico, delle sue soluzioni formali. Gray ha fatto sempre lo stesso film: ma come tutti i veri classici non ha mai annoiato, nè speculato su triti stereotipi. C'è forza nell'immagine grayana, nitida, intensa eppure ricca di significati contraddittori. C'è l'urgenza di sentimenti debordanti, e il suo controllo attraverso la forma. C'è un'eleganza, una geometria nella messinscena che non disinnesca l'esplosione melodrammatica o la deriva noir, non stempera l'enfasi lirica/operistica o la tensione thriller: è invece proprio dalla misura registica che scaturisce la potenza tragica di una vicenda di miseria e passione, dove le contingenze economiche/sociali regolano i rapporti affettivi/familiari e viceversa, senza dimenticare il ruolo della Fede religiosa. C'è qualcosa di scorsesiano in questo film, non nello stile ovviamente, ma nell'analisi dei meccanismi che generano la violenza e nello strazio del dilemma fra carne e spirito. Rispetto ai suoi film precedenti, Gray tende a traslare la prospettiva dalla componente ebraica/maschile a quella cattolica/femminile. Quello che pareva essere solo un pretesto narrativo, un orpello, ossia il legame di Ewa con la sorella Magda e la sua insopprimibile Fede cristiana, tutto ciò che connota in pratica la sua legacy con l'adolescenza in Polonia, non sono solamente il motore della vicenda, ma ritornano ciclicamente a ricordare alla protagonista e allo spettatore che Ewa resta una "immigrant", una straniera in una terra ambivalente, dove ostilità ed opportunità, tradimento e salvezza, affermazione ed umiliazione albergano nella stessa inquadratura, risiedono negli stessi sguardi. Gray è impeccabile nel ricostruire la Grande Mela degli anni 20 senza perdere di vista il succo della storia; la rievocazione dello squallore di Ellis Island e dell'aria viziata del Lower East Side non si fà mai documento storiografico, affresco d'ambiente o elemento decorativo: piuttosto contribuisce efficacemente a connotare Ewa come "pesce fuor d'aqua" in un mondo ammaliante e pericoloso di attrici/prostitute, teatri/bordelli, maghi/seduttori, parenti/estranei, protettori/spasimanti. L'ambivalenza della NY dipinta da Gray riflette quella dei personaggi e delle situazioni. Il terzetto di protagonisti è al solito affiatato e Phoenix si conferma, una volta di più, uno dei massimi interpreti della nostra epoca, un loser "grayano" dove virtù e dannazione procedono di pari passo, dove il cinico opportunismo non trova redenzione nemmeno nel sangue di un volto tumefatto o nelle lacrime di in un amore non ricambiato. Il gioco di specchi che chiude il film, che nella sua sofisticata semplicità esemplifica il senso di tutto il cinema di Gray, è il punto esclamativo su una delle pagine di cinema più trascinanti degli ultimi tempi.

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