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Lincoln

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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La recensione su Lincoln

di ROTOTOM
8 stelle

E’ in atto un  lifting  della coscienza degli USA – come ogni VIP planetario che si rispetti - per rimanere  fresca, invano, nell’ immaginario collettivo del mondo. E nell’era dell’immagine – manipolata -   è il cinema  il principale veicolo di verità storica, capace com’è di risciacquare gli eventi come se fosse una lavatrice temporale. Roba che se avesse avuto l’intuizione H.G.Welles…..

 Django Unchained di Quentin Tarantino affronta la questione razziale a modo suo, mostrando nel sud pre guerra di secessione,  barocco ed eccessivo,  gli effetti della cultura della violenza padronale sulla carne degli schiavi.  Zero dark Thirty di Cathryn Bigelow scaraventa nel contemporaneo la violenza della guerra al terrore post 11 settembre 2001. La difesa di una democrazia da asporto a difesa di interessi economici nel cui nome si svolge l’esercizio autoassolvente delle sopraffazioni fisiche, psicologiche  non più sui nigger ma sui prigionieri mussulmani.

In mezzo ci sta Lincoln di Steven Spielberg. Lincoln l’arguto. Lincoln il dinoccolato. Lincoln il narratore di aneddoti con morale.  Colui che con grande capacità politica spostò il problema dello schiavismo da un’esigenza economica, ovvero liberare gli schiavi di un’economia bloccata sull’agricoltura, la manodopera a costo zero del sud aristocratico per avere salariati da impiegare nell’industria, fondamentale caposaldo delle mire espansionistiche economiche capace di garantire il futuro della nazione capitalista – cosa che nel film non viene neppure accennata- , ad un problema morale che rappresenta il fulcro centrale del film. Lo schiavismo è abbietto, siamo d’accordo e il film ribadisce con forza un concetto di per sé tautologico. Avere una parte della nazione che produce con mano d’opera a costo zero, impedendo di fatto l’espansione economica è quantomeno deprecabile e fastidioso. Il principio era l’uguaglianza, quello già messo in atto dai Nordisti che avevano dato uno schioppo e una giacca blu ai soldati di colore investendoli del diritto di morire per la patria come i bianchi ma pagati meno. Tutti uguali di fronte ad un salario diverso, nel nome dell’industrializzazione.  Quello che i puristi della Storia affermano non fa parte dell’operazione di beatificazione planetaria di Lincoln. E forse è giusto così.

Non importa poi se l’esercizio della democrazia ven(iva)ga agevolato da un commercio sotterraneo di voti, promesse di posti nella pubblica amministrazione, vantaggi che sfuggono al popolino. La democrazia ha in sé un peccato originale generato dalla labilità dei principi umani così volatili quando gli interessi personali – meschini -  soccombono di fronte agli - alti - ideali . 

Ecco quindi  il Lincoln disegnato da Spielberg, il mitico personaggio dalle doti di fine stratega e conoscitore delle umane genti di ogni razza e estrazione  sociale verso le quali  riusciva ad entrare in empatia. E’ come se avesse preso come pretesto la violenza fisica , pop, aberrante poiché riconoscibile su ogni cicatrice di ogni corpo  nero schiavizzato di Django Unchained per ottenere i suoi scopi economici, politici, sociali e traghettare poi la nazione, 150 anni dopo, verso la difesa di quella democrazia conquistata con capacità, inciucio e alleanze sospette – crimini generati dal peccato originale di cui sopra - al cospetto del diavolo incarnato, Osama Bin Laden, in Zero dark Thirty.   Il Lincoln attendista che non ferma la guerra per far passare alla Camera il 13 emendamento e a guerra finita dice al   Generale Ulysses Grant – uno dei più grandi macellai della storia e pessimo futuro Presidente degli Stati Uniti – di non abbandonarsi a rappresaglie.

Lincoln non è un film di Spielberg, almeno non quello degli ultimi anni. O forse lo è ancora di più, per abnegazione alla missione patriottica del preservare il mito. E’ uno Spielberg arguto nel presentare un film che si fregia di uno status di verismo storico, solo dalla parte della luce, necessaria all’avanzamento della storia. Uno Spielberg dinoccolato nel gestire il tutto, mellifluo  e sornione che utilizza una sorta di umorismo raffinato per smorzare le asperità, la caratterizzazione fisionomica per favorire alla bisogna la naturale avversione o empatia con i personaggi. Uno Spielberg grande narratore, bisogna riconoscerlo, la cui morale a differenza dei suoi film più recenti non è esplosa sullo schermo ma filtrata, instillata goccia a goccia dalla meravigliosa sceneggiatura di Tony Kushnern giocata sul filo dei dialoghi, sottili, pungenti capaci di un linguaggio estremamente ricco come da tempo non si udiva al cinema. E che  confermando  le doti di fine cineasta  e bravo conoscitore degli umani spettatori  di ogni razza e estrazione  sociale verso le quali  riesce sempre ad entrare in empatia, piazza il colpetto di scena finale, carezzevole, famigliare, che chiude tutto con il sorriso dei giusti.

E’ questo il pregio principale di Lincoln, un film metapolitico e mitopoietico che sfrutta ogni possibilità mimetica della macchina da presa per fissare nel tempo, una volta per tutte, l’immagine Del Presidente nella coscienza collettiva. Grandi le interpretazioni, la sagoma di Lincoln (Daniel Day Lewis, immenso) resta in controluce un sacco di volte a ratificare un immaginario già consolidato, interessante invece tutta la parte intima, il rapporto con la moglie Mary (Sally Field) e il suo ruolo nelle decisioni del Presidente. L’essere umano diviso da ruolo istituzionale e padre che cerca di proteggere dalla (sua) guerra il figlio Robert (Joseph Gordon – Levitt) desideroso di arruolarsi.  Ma su questo è già stato scritto e detto e premiato molto. Tutto il resto passa in secondo piano, poiché facente parte della magnificenza alla quale Hollywood ci ha abituati e che ormai non sorprende più. Costumi scenografie ricostruzione storica sono parti fondamentali per affondare con l’immaginazione all’interno della Nascita di Una Nazione e restarne completamente soggiogati. Ci sarebbe da meravigliarsi se non fosse così.

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