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Can

Regia di Rasit Çelikezer vedi scheda film

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La recensione su Can

di OGM
8 stelle

Prima di questo lungometraggio, il regista turco Rasit Celikezer aveva girato quasi esclusivamente serie televisive.  Ed ora ci sorprende – e, prima di noi, i giurati del Festival d Sundance -  con questo film “teneramente maledetto”. La tenera maledizione è quella dei figli nati fuori dall’amore. Ridotti a merce che si compra, oppure frutti di dolorosi tradimenti; in ogni caso, vittime del miope egoismo dei loro genitori. Il piccolo Can è il bambino mancante che, in breve tempo, diventa il bambino di troppo. La sua madre adottiva Ayse, per nove mesi, ha dovuto fingere di essere incinta, in previsione dell’arrivo di quel neonato, proveniente chissà da dove, e pagato a peso d’oro a trafficanti senza scrupoli. È stato suo marito Cemal a volerlo, per mascherare l’onta della sua sterilità: un uomo degno di tal nome non può essere fisiologicamente incapace di procreare. E così quell’esserino è stato usato per tappare un buco, per salvare un’apparenza che, purtroppo, per gli artefici dell’inganno, sottende una dura concretezza con cui fare quotidianamente i conti. Anche negli anni seguenti, quel bimbo, per loro, resterà sempre e comunque un prodotto acquistato al mercato nero, tanto che risulterà  innaturale volergli bene, o magari addirittura sacrificarsi per lui.  Ayse, mentre Cemal è in fabbrica, dovrebbe allevarlo e badare alla casa, e invece si avvilisce per quel carico che le viene imposto senza un perché. Per lei Can non rappresenta nient’altro che un onere insostenibile, mentre per lui è soltanto un trofeo da esibire agli occhi del mondo. La famiglia non esiste, e la presenza di quel terzo incomodo finirà ben presto per disgregare anche la coppia. Il senso di scollamento sfocia nella voglia di andare via, abbandonando o, per lo meno, mettendo tra parentesi, le conseguenze di quell’errore commesso con tanta leggerezza. Cemal fugge davvero, lasciando Ayse con quel peso che grava come un macigno sulla sua situazione di donna sola.  In questo film, scorci di passato e di presente si alternano per ribadire la disumana assurdità di quel paradosso in carne e ossa: una creatura cercata perché fungesse da suggello ad un’unione coniugale, e successivamente usata come oggetto di ricatto.  Can è un problema da risolvere, una cosa a cui è difficile trovare una sistemazione, dato che nessuno si sente emotivamente in dovere di occuparsi di lui. È un intruso di cui liberarsi in qualsiasi modo. Ayse, inizialmente, prova a restituirlo al venditore, ma poi si rassegna.  Come lei,  tutti gli adulti, intorno a quel bimbo, proseguono i propri squallidi giochi, per necessità o per  egoismo; e intanto lui, silenziosamente, cresce. Compie quel processo in piena autonomia, perché la madre, che non lo ha mai neppure registrato all’anagrafe, non lo manda a scuola e, alla mattina, mentre si reca sul posto di lavoro, lo deposita sulla panchina di un giardino pubblico. Non teme di perderlo, anzi, forse, sotto sotto, si augura proprio che  ciò accada. Il suo rapporto con lui si trascina tra mille difficoltà pratiche, e senza il conforto dell’affetto, nei confronti di quello che, a tutti gli effetti,  è un perfetto estraneo, il cui ruolo ha perso significato non appena il matrimonio è andato in frantumi.  Nella vita reale ci sono certamente tanti figli  concepiti come accessori, desiderati per scopi puramente strumentali. Ma questa condizione non è mai così drammaticamente visibile come nel momento in cui tali scopi vengono meno. La finzione cessa, e ciò che prima poteva risultare utile diventa di colpo un fastidio. L’istinto materno non rende immuni da questo umanissimo fenomeno. L’accettazione per convenienza, al sorgere delle prime difficoltà, scade automaticamente nel rifiuto. Succede anche tra una donna e il bambino che ha tenuto fra le braccia. Soprattutto se, come in questo caso, si tratta di uno sconosciuto che, nel cuore di lei, è ancora in attesa di prendere forma. La situazione è angosciante, e Rasit Celikezer ce la descrive circondandola di una raggelante atmosfera di fredda follia. In una società sospesa tra emancipazione femminile e mentalità patriarcale, lo slancio della passione rimane confuso nelle schermaglie tra libertà individuale ed obbedienza alle regole, e la distanza sentimentale sembra l’unica soluzione all’imbroglio. I tradizionali legami sono in crisi, esattamente come lo sono gli antichi rapporti di forza. Il cinema turco ce lo sta ricordando da un pezzo. Ma quando, come in questo film, il messaggio è scritto sulla pelle di un bambino, si può dire che, davvero, si è toccato il fondo.

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