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Leaving

Regia di Václav Havel vedi scheda film

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La recensione su Leaving

di OGM
8 stelle

Un primo ministro, dopo quindici anni di governo, è costretto a dimettersi. E Václav Havel, l’ex presidente ceco(slovacco) diventato regista, coglie l’occasione per servirci la sua pietanza agrodolce: una macedonia di luoghi comuni in salsa grottesca. La sua omonima opera teatrale soffre un po’ nel passaggio al grande schermo, restando imprigionata nella staticità del palcoscenico; ma quella rigidità, d’altro canto, contribuisce a suo modo a quel decorativismo caricaturale che, in questo film, caratterizza la figura principale insieme al suo goffo entourage. L’estetica dell’ambientazione risponde ad un manierismo fuori dal tempo, che incornicia, tra i cimeli della storia, l’imperitura icona dell’uomo di potere, con i suoi vizi privati e le sue pubbliche virtù. Vilém Rieger, ex Cancelliere di una nazione imprecisata, impersona il sovrano che, all’epoca dell’assolutismo, si sarebbe semplicemente goduto le comodità del suo castello e le gioie delle sue nutrite compagnie femminili, e al giorno d’oggi, in epoca repubblicana,  pur non facendosi mancare nulla, è oberato dall’obbligo della giustificazione: una parola dietro alla quale si cela la facciata ufficiale dell’ipocrisia. Vilém Rieger, eternamente impegnato, nel giardino della sua villa, a ricevere persone e a rispondere a domande, è l’individuo ridotto a pura immagine, che vive solo dell’apparire e forse non ha proprio bisogno dell’essere, visto che si ritira nei propri appartamenti solo per lavarsi e cambiarsi d’abito in vista dell’incontro successivo. La sua comunicazione, anche in ambito familiare, è ormai ridotta a retorica e menzogna. D’altronde queste sono le uniche forze a rimanere in piedi, quando tutto intorno crolla: Vilém continua impettito a intrattenere i presenti con i suoi discorsi, mentre il suo assistente è intento a sgomberare la sua residenza separando, con scrupolo quasi maniacale, i suoi beni personali da quelli appartenenti allo Stato. La burocrazia poco a poco erode il potere che è non più tale, liquidando, con un colpo di penna, tutte le pretese di grandezza. L’impietosa concretezza numerica della contabilità distrugge l’alchimia delle parole: le tasse che si dovevano abbassare per aumentare le entrate dell’erario lasciano d’un tratto il posto alla fornitura di 100 gomme e 50 penne a sfera che forse è opportuno restituire. Intanto il deposto premier viene assediato da una stampa tanto malconcia quanto morbosa, impersonata da un cronista incerottato e ingessato che, a nome dei lettori del suo giornale,  gli chiede quando sia andato per l’ultima volta a letto con la sua compagna. Gli unici momenti di pace ed intimità sono quelli che Vilém trascorre con Bea, la studentessa universitaria che lo ammira smisuratamente, che su di lui ha scritto la tesi, e che di tanto in tanto appare al centro della piscina, candida e riccioluta come la Venere del Botticelli. Ciò che resta sempre uguale ha spesso l’aspetto di una romanticheria kitsch, ed ha il gusto insieme mieloso e piccante di certi liquidi utilizzati per conservare i cibi: uno stucchevole insieme di tutti i sapori, fatto per chi è  indiscriminatamente avido di ogni cosa, e non distingue, come in questa messinscena, il look contemporaneo dalle mise di fine Ottocento. Trasversale e confuso è anche il gioco del potere, che ama le commistioni in quanto tali, sia che si tratti di mescolare gli interessi comuni con quelli personali, sia che, come al giorno d’oggi, si tratti di cavalcare l’ondata della globalizzazione, facendo del profitto un principio universale, che avvicina i popoli e non guarda in faccia a nessuno. A questa visione, in cui una metaforica minestra viene rigirata sempre nello stesso calderone, risponde anche il fenomeno del riciclaggio ideologico, che riutilizza gli slogan dei predecessori e immette nuovamente nel circuito coloro che ne sono stati espulsi. Le parti più attive di questo processo sono i voltagabbana, gli adulatori, gli opportunisti, che, ad ogni passaggio di mano, devono semplicemente rivolgersi ad un altro cliente. Nelle alte sfere, il carburante di questo meccanismo è fatto di ricatti e compromessi: gli stessi a cui deve cedere Vilém per poter sopravvivere alla propria caduta. 

Václav Havel ha scritto Leaving (Odcházení) nel 2007, quattro anni dopo aver abbandonato la politica. Si possono sospettare riferimenti alle proprie vicende personali, perché il personaggio di Vlastík Klein è accostabile alla persona di Václav Klaus, il suo avversario che gli successe alla presidenza alla scadenza del suo secondo mandato. Ma le circostanze particolari poco importano: la realtà descritta in questo film non appartiene ad un preciso momento della storia. È infatti la manifestazione di una legge eterna, che vuole l’uomo molto più attratto dal potere che spaventato dal paradosso. Potere e paradosso sono, in fondo, i due poli opposti dell’orrore intellettuale, quello che antepone il dominio delle menti alla loro educazione, e la persuasività al rigore logico. Il consenso si estorce, si compra, si impone con la forza, usando talvolta il denaro e le armi, ma più spesso le illusioni: quelle che in questo film indossano la colorata felicità di uno spot pubblicitario, o la festosa musicalità di un comizio,  il cui contenuto certo non ha senso, però è troppo bello per (non) essere vero.

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