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Venuto al mondo

Regia di Sergio Castellitto vedi scheda film

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La recensione su Venuto al mondo

di rflannery
5 stelle

Quarto film da regista di Sergio Castellitto tratto dal romanzo omonimo della moglie Margaret Mazzantini. Non è certo il migliore anche se non mancano spunti interessanti. La vicenda: dopo parecchio tempo si fa vivo nella vita di Gemma (Penelope Cruz, la migliore del cast) Gojko, un ormai attempato poeta slavo che invita la donna a Sarajevo a visitare una mostra sulla guerra. Gemma parte con il figlio adolescente Pietro (Pietro Castellitto) per un lungo viaggio che è anche un viaggio nella memoria e negli affetti. Anni prima infatti, nel pieno della guerra civile, era proprio nato a Sarajevo il suo unico figlio. A otto anni di distanza da quello che rimane il suo film migliore, Non ti muovere, Sergio Castellitto ripropone nelle vesti di protagonista un'intensa Penelope Cruz che proprio nel film del regista romano aveva mostrato di avere nelle proprie corde anche personaggi di grande drammaticità. È senz'altro la cosa migliore di un melodramma tanto ambizioso quanto squilibrato. Il tema forte del film (e del romanzo che Castellitto adatta come sceneggiatore) è più che impegnativo: descrivere e addentrarsi in un mondo femminile a partire dalla ferita più dolorosa che una donna possa patire, l'impossibilità o comunque la difficoltà nel mettere alla luce dei figli. È la ferita, quasi la croce che deve portarsi sulle spalle la protagonista del film, Gemma, ma non è l'unica difficoltà che la donna incontra in questo viaggio nel passato in un luogo simbolo di ferite e ferite inferte sulle donne come Sarajevo. Castellitto ha tanta materia da raccontare: l'amore intenso e burrascoso tra Gemma e Diego, un fotografo americano che la donna conosce a metà degli anni 80 in Jugoslavia; l'amicizia che li lega al club degli artisti slavi che fa capo a Gojko; la crisi tra i due causata anche dai tanti tentativi falliti da Gemma di rimanere incinta. E ancora: il rapporto di Gemma con il figlio adolescente, i conti da chiudere col passato. Le difficoltà che Castellitto incontra nel mettere per immagini il romanzo della moglie sono molteplici: innanzitutto la dimensione narrativa è assai poco fluida. Sono due i piani narrativi – il presente e il passato – entro cui la vicenda si muove e il regista fa fatica a rendere la narrazione omogenea, sorvolando su troppo (la fretta con cui si racconta l'incontro tra Gemma e Diego, le tante ellissi con cui si accenna appena alla vita di Gemma a Roma) e tagliando personaggi e storie potenzialmente importanti (la figura del primo marito di Gemma impersonato da Vinicio Marchioni). Inoltre anche nella gestione dei personaggi la regia di Castellitto si mostra fragile: il partner maschile della Cruz, Emile Hirsch (strepitoso in Into the Wild) è alle prese con un ruolo gridato, sopra le righe e la sua interpretazione non convince fino in fondo. Così come appaiono trattati in modo superficiale e non privi di cliché i vari artisti sodali di Gojko; lo stesso Pietro Castellitto, dopo la prova riuscita ne La bellezza del somaro, dimostra tutta la sua inesperienza nella parte complicata del figlio adolescente di Gemma. Su tutti il difetto maggiore risiede senz'altro nella sceneggiatura scritta da Castellitto in coppia con la Mazzantini che, eccezion fatta per il personaggio di Gemma, non riescono mai a trasformare personaggi che sulla carta potrebbero funzionare in caratteri da grande schermo. Molti sono gli scivoloni nel ridicolo involontario: dialoghi tipo “Sei una madre, un tempio e io un monaco in ginocchio davanti a te”; ancora dchiarazioni come “La nuca è il destino, il fiume della vita”, tolgono parecchio pathos a un film che punta tutto sulla sfera emozionale e distruggono qualsiasi verosimiglianza. Altrove, invece predomina la letterarietà di troppi personaggi che parlano come un libro stampato ricorrendo peraltro a metafore ardite che non si sposano affatto con la situazione. Un esempio su tutti, il dialogo intenso tra la psicologa e la stessa Cruz annichilito da una metafora tanto poetica quanto fuori luogo: l'immagine del figlio come un “lucchetto di carne” con cui legare a sé per sempre il compagno. Tanti artifici di scrittura diventati pura retorica che appesantiscono inutilmente una vicenda che forse avrebbe avuto bisogno di più immagini forti (come quella, di grande impatto, della nascita del piccolo Pietro) e meno parole e ancora meno musica, un altro elemento sin troppo presente nel film.

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