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Venuto al mondo

Regia di Sergio Castellitto vedi scheda film

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La recensione su Venuto al mondo

di M Valdemar
4 stelle

Appena venuto al mondo eppure è subito di una pesantezza solenne e insistita - nonché intristita e intristente -, tanto più irritante quanto più cerca di darsi delle (sconsiderate) arie impegnate e autoriali. In realtà, e brutalmente, l’ultimo lavoro di Sergio Castellitto regista è un (indigesto) polpettone melodrammatico assemblato con approssimazione ed evidente (dis)gusto nell’istigare il pubblico alla compartecipazione del dolore sbattuto, con tante, troppe cerimonie, sullo schermo. Vittima/destinatario/consumatore di siffatta impresa è lo spettatore. Al quale, ogni cinque-dieci minuti viene rivolto l’imperativo: “commuoviti!”. Come nella “miglior” tradizione di telenovele e talk show pomeridiani d’infimo ordine.
In un affastellarsi confuso, confusionario, talora ridicolo spesso insensato sempre urlato, si assommano scene madri (per puro intrattener, dal putrido trattar, nel pudico trotterellar) e scene figlie (dell’impellente necessità di ossequiare la facile ricerca dell’effetto emozionale); e si insegue, spasmodicamente, come uno stalker non molto garbato, la resa da film “importante”.
Tematiche “forti” e di sicura presa (la guerra e le sue devastanti conseguenze; il desiderio di maternità avverso dal destino; l’amore e i mille ostacoli sul suo cammino, ecc.), da immediata immedesimazione e scatenata pena per i poverini protagonisti di tragiche vicende, fanno da sfondo “morale” (ovvero: mortale) a una storia che, per come è stata pensata, costruita, messa in scena, è stracolma di accadimenti e colpi di scena che trovano il loro rancido vertice nelle battute finali; e che denotano un bisogno ossessivo-compulsivo di “sconvolgere”, di giustificare una pochezza (narrativa, creativa, analitica) ingiustificabile, di bearsi della capacità di architettare espedienti, arzigogoli, ricami. Elementi tutti che sono meramente pretestuosi, scollegati da un sincero discorso di svisceramento delle tematiche “forti” di cui sopra; per disinteresse o incapacità (più la seconda), ma a questo punto, a conti fatti (visto l’esito) poco o nulla importa.
In sintesi, la trama, così ricca di eventi, di amori contrastati, di personaggi a cui gliene capita di tutto di più, ricorda il classico intreccio alla Nicholas Sparks: questa è la cifra di Venuto al mondo, romanzo prima e film dopo. Un tutt’uno dallo stile ridondante, enfatico, “pieno”, dallo svolgimento pesante, molesto, e con imbottitura imbellettata di dialoghi banali, risibili ambizioni liriche (ascoltare/vedere per credere i momenti largamente annunciati e più che sottolineati, anche dalle musiche, di “poesia”), figurine scritte (male) col copia-incolla, situazioni incomprensibili.
Margaret Mazzantini scrive il libro (già pensando alla riduzione cinematografica) ed è coautrice della sceneggiatura assieme al marito regista; il quale, in tale veste, se da un punto di vista strettamente tecnico non sfigura è però responsabile diretto del linguaggio pomposo e artificioso col quale riempie spesso e volentieri lo schermo. Le cause del misfatto sono pertanto facilmente individuabili. In più, siccome Sergio Castellitto tiene famiglia e ci tiene a farcelo sapere, si affida per un ruolo importante, al figlio Pietro: già impresentabile nel bruttissimo recente film E' nata una star? di Lucio Pellegrini (nel quale un’altra dilettante come Luciana Littizzetto al confronto pareva Marlene Dietrich) qui si conferma - suspence - impresentabile, fuori posto. Finché resta muto è quasi accettabile come presenza, perché cerca di confondersi con gli altri attori in scena, con lo  sfondo, con le scenografie; poi apre bocca ed ogni dubbio circa le sue (in)capacità è presto che evaporato. Ma, come Merola insegna, i figli so’ piezz’ e’ core.
Coinvolti nel sovraccarico esercizio di stile (di prolissità tragica e lacrimevole) risultano due star del calibro di Penelope Cruz e Emile Hirsch. Alla minuta attrice spagnola vanno indubbiamente riconosciuti i meriti per l’impegno profuso, per la sincera dedizione alla causa: virtù che paiono abbondantemente sprecate in questo film. Il talentuosissimo  Hirsch invece, forse un po’ per demeriti suoi forse un po’ per come viene diretto (cioè male), passa la maggior parte del tempo in cui sta in scena in atteggiamenti - drammatici, appassionati, (sovra)eccitati (a seconda del caso) - che finiscono per certificare la sua interpretazione come forzata, artefatta, spesso non giustificabile.
Lo scadente lavoro sugli attori è rintracciabile anche nei comprimari (stante quanto già scritto su Castellitto jr), a partire da Hadnan Haskovic, che ha un ruolo assai rilevante, per il quale si possono usare gli stessi argomenti spesi per Hirsch: insomma è poco credibile, anche per via della serie di parole ad effetto, presuntivamente “ispirate” (in realtà sovente sfocianti nel ridicolo), messegli in bocca. Appena un po’ meglio Saadet Aksoy (la sua trasformazione convince di più di quella della Cruz), ma la “linea” è sempre quella.
Discreta la fotografia che ben sfrutta le varietà di scenari e periodi, come apprezzabile è la concezione di un’opera dal respiro “internazionale” che possa uscire veramente dai confini. Peccato che sia da salvare solo l’idea (e le forze messe in campo) e non il prodotto finito, destinato già nel breve ad essere dimenticato.






 

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