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Venuto al mondo

Regia di Sergio Castellitto vedi scheda film

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La recensione su Venuto al mondo

di LorCio
6 stelle

Il polpettone è un genere cinematografico che potremmo definire demodé e che faceva tanto piangere le grandi platee popolari di decenni orsono. In realtà il polpettone, come tutti gli altri generi cinematografici, si è dovuto reinventare nel corso del tempo ed ha assunto varie forme, mischiandosi spesso con il mélo – o, se preferite, il melodramma. Il melodramma è una roba che abbiamo insita noi italiani e non serve una laurea in letteratura per capirlo. Siamo pur sempre compatrioti di Giuseppe Verdi, e non è (giusto per fare un nome celebre) che Manzoni, nonostante l’impianto complesso che non stiamo qui a commentare, vada tanto lontano dalla questione.

 

Quando abbiamo a che fare con il melodramma dobbiamo rinunciare al realismo perché è un mondo che attinge a piene mani dalla realtà mettendola però in scena in una sorta di sublimazione che la rende così finzione. I nostri melodrammi cinematografici di riferimento sono, per ragioni diverse, quelli di Raffaello Matarazzo (Catene, I figli di nessuno) da una parte e quelli di Luchino Visconti (Ossessione, Senso, Rocco e i suoi fratelli) e di Valerio Zurlini (Estate violenta, La prima notte di quiete) dall’altra. Da una parte la rappresentazione del mondo popolare immerso in un’ottica manichea e fatalista, dall’altra l’approccio più esistenzialista ma che non rinuncia comunque alle grandi tragedie intime delle conseguenze dell’amore.

 

Nato nell’epoca delle contaminazioni dovute più che altro alla necessità della sintesi e alla crisi del cinema in sala, Venuto al mondo è figlio di questi due genitori. Non è una teoria infelice perché oggettivamente ci sono troppe cose dentro questo film che all’interno di un film di Matarazzo o di Visconti o di Zurlini avrebbero trovato una maggiore organicità perché affrontati nei propri ambiti specifici. Qui subentra la componente, diciamo così, polpettonesca, perché realizza così l’obiettivo di accontentare più palati possibili (sia quelli dalla lacrima facile, sia quelli più intellettualoidi). Il difetto principale del quarto film di Sergio Castellitto, giunto dopo l’incompresa e bellissima commedia contemporanea La bellezza del somaro, è proprio la mancanza di organicità.

 

Eccessivo ed enfatico come deve essere il mélo (e le musiche incessanti di Eduardo Cruz lo sottolineano alla grande), almeno nella prima parte Venuto al mondo non funziona: è artificioso, non coinvolge (come dovrebbe fare un mélo), non riesce a prendere per la mano lo spettatore ed accompagnarlo al fianco dei due protagonisti, a cui manca quel quid necessario per essere una coppia memorabile. Un quid che non so spiegare, perché storicamente le grandi coppie del mélo sono legate da un misto di amore ed ossessione, passionalità e repulsione, fatalità e irrimediabilità. Sulla carta Gemma e Diego hanno tutte queste caratteristiche, ma manca quel certo-non-so-che necessario per portarli al di là del bene e del male.

 

Tendenzialmente apprezzo la scrittura di Margaret Mazzantini, di cui ho letto quasi tutto. Venuto al mondo non mi ha mai attirato per due motivi: la mancanza di interesse nei confronti della storia e la mole fisica del mattoncino. È stato però un best seller perché fondamentalmente Mazzantini si pone sulla stessa lunghezza d’onda del suo pubblico, è un’affabulatrice che sa usare bene le parole giuste all’interno delle dinamiche del suo genere. Non ti muovere, a suo modo, era un buon film perché riusciva a trasportare degnamente la pagina sulla pellicola e aveva il suo unico grosso difetto nell’interpretazione troppo scatenata di Sergio Castellitto. In questa ultima trasposizione ho l’impressione che manchi un lavoro di sceneggiatura adeguato.

 

Si sa che in origine il film durava più di tre ore e penso che il lavoro di montaggio sia stato abbastanza faticoso, ma a mancare è la compattezza. La carne al fuoco è tanta ma il pezzo grosso è lasciato per il gran finale, mentre per tre quarti di film ci vengono serviti tanti pezzi poco saporiti e troppo salati. Probabilmente la metafora culinaria (stiamo pur sempre parlando di un polpettone, per quanto light) non è chiara, ma il fatto è che Castellitto e Mazzantini preferiscono cercare le frasi ad effetto (non ne resta neppure una: troppo banali, trite, mielose, programmatiche e poco avvincenti le metafore – come quella della nuca come origine della vita) piuttosto che procedere ad una rielaborazione più accurata del materiale a disposizione.

 

Non funziona neppure la scelta di Pietro Castellitto: troppo somigliante a quello che dovrebbe essere il suo padre adottivo sullo schermo, cioè papà Sergio, troppo coinvolto nella vicenda (un libro scritto da sua madre, un film diretto da suo padre, un personaggio che si chiama come lui), troppo esagitato in qualche occasione (mal diretto?). Non funzionano certe ellissi narrative (dovute, penso, ai tagli in moviola): per esempio, immaginiamo che papà Armando (il buon Luca De Filippo che è il più bravo della partita) sappia più di quel che dice a sua figlia Gemma, ma cosa, come, perché? Oppure la psicologa di Jane Birkin, che ha il sapore di quei personaggi buttati lì senza un perché (partecipazione amichevole, immagino).

 

Cos’è che funziona? Funziona l’alternanza tra passato che non passa e presente che deve fare i conti col passato, funziona la parte a Sarajevo sotto le bombe (che ha il giusto impatto), funziona la sezione dedicata al passaggio di testimone tra madri (con quel bimbo appena nato di miracolosa bellezza), funziona la soluzione finale, l’unico attacco veramente melodrammatico. Funzionano anche Penélope Cruz, che con Castellitto sa giocare di sottrazione, regalando una prova sensibile e sofferta (purtroppo doppiata da Chiara Colizzi, ed è un peccato perché Cruz qui dovrebbe parlare in italiano, inglese e croato) ed Emile Hirsch, che ha un ruolo forse un po’ troppo idealizzato e probabilmente contraddittorio ma che sa dare il giusto senso al suo cristologico Diego.

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