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Venuto al mondo

Regia di Sergio Castellitto vedi scheda film

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La recensione su Venuto al mondo

di scapigliato
8 stelle

Chi scrive non ha letto il romanzo da cui è tratto il film. Chi scrive non ha mai visto un film di Sergio Castellitto regista. Chi scrive crede incondizionatamente alla grandezza e alla primitività di Emile Hirsch from Topanga, California.

Come gli strutturalisti negano la contestualizzazione e il biografismo, e si dedicano esclusivamente al testo in oggetto, in questo caso Venuto al mondo della Mazzantini diretto dal Marito e interpretato dal figlio Pietro, anch’io non terrò conto del romanzo di partenza e delle precedenti esperienze registiche di Castellitto e mi atterrò al solo testo filmico.

Molti sono gli aspetti che saltano subito all’occhio, anche senza aver letto il libro, uno dei quali balza clamoroso fin dalle prime immagini: il lavoro di sintesi, di traduzione dal letterario al filmico, insomma la trasposizione. Molti infatti sono i salti temporali, le ellissi, i giochi spaziali che non dicono tutto perché avvertibile nel non detto, nell’intuito. Anche maestri come Eastwood asciugano la narrazione tenendo fuori dal narrato tutto ciò che è orpello o, peggio ancora, tutto ciò che è solo ed esclusivamente “informativo”. Castellitto sa con disinvoltura e con coraggio scegliere la via difficile del film a metà tra il narrativo e il visivo, privilegiando in alcune sezioni la pura narrazione come in altre il fascino evocativo dell’immagine e dell’estetica. Se a tratti può risultare pedante e macchinoso, anche spocchioso, il linguaggio adottato dal regista è efficace e non appesantisce una storia già di per sé pesante nei contenuti e nella definizione dei personaggi. Questi, molto letterari per ovvie ragioni, sono il secondo aspetto sensibile del film.

Un cast scelto che mette in fila scuole diverse, geografie diverse, e di conseguenza un sistema dei personaggi – o meglio a questo punto si potrebbe dire sistema degli attori – così variegato da essere una delle cifre grammaticali del linguaggio registico. La spagnola e almodovariana Penélope Cruz, tiepidamente in parte, che sa sottrarre l’esuberanza del suo vate connazionale e sa poi esplodere in passionalità latine marcando così il ruolo borderline del suo personaggio; l’italiano Pietro Castellitto, di una spontaneità imbarazzante che il padre – mi si perdoni – oggi può solo sognarsi; l’americano Hirsch, talentuoso fin dentro il midollo, attore primitivo, tra i pochissimi giovani antidivistici e anti-glamour ad avere capello scompigliato, petto villoso e barba folta, di scuola penniana, ma libero da ogni forzatura del metodo, riporta la sua ipotecata wilderness attoria in ogni suo personaggio, e in questo ancor di più, a risarcire così i pochi passi falsi della sua ancora breve carriera; la francese Jane Birkin, in poco più di un cammeo porta con sé la sofisticatezza del cinema francese, ma anche un passato, un’ideologia sessantottina che fa della sua psicologa un personaggio non inutile, non un generico, ma una pedina importante del gioco nervico che i due protagonisti Hirsch e Cruz stanno portando avanti inconsapevolmente; Adnan Haskovic, senza volermene, è la macchietta dei balcani, rozzo, sciatto, alcolizzato, bestiale in tanti suoi approcci sociali, ma elegante e raffinato, persino poeta, nel risvolto buonista della medaglia. Per non parlare del personaggio del padre della Cruz, affidato con intelligenza a Luca De Filippo. Un ruolo sì marginale, ma così sentito, che le sue lacrime sono le più coinvolgenti, le più vere e spontanee di tutte le microstorie del film.

Microstorie perché oltre a quella generale, l’amore tra la Cruz e Hirsch tormentato da un figlio che non arriva, il sistema dei personaggi fa sì che ognuno di loro tessa un rapporto personale e individuale con un altro personaggio, e il legame tra il padre di Penélope Cruz, appunto De Filippo, e il giovane Diego di Emile Hirsch è tra i meglio riusciti e i più sentiti.

Film dalle corde emotive scoperte, Venuto al mondo è un mélo di vecchia scuola con eroine tormentate, eroi dal fascino esotico, una location anch’essa esotica, in più tormentata dalla guerra, a fare da locus terribilis e da contraltare al plot di base, una normalissima storia d’amore, poi dramma famigliare, poi della gelosia, fino alla tragedia catartica, le bombe e i morti, i segreti e le agnizioni finali che fanno tanto telenovela.

In sala c’era chi usava parole come “pretestuoso”, “immorale”, “che ne sa quella lì della guerra nei Balcani!” riferendosi ovviamente alla Mazzantini. Spunti interessanti, perché alla fine chi ci dice che tutto non sia solo uno strumento per la lacrimazione e l’empatia patetica che tanto piace a quel cinema italiano che non è scoreggione, ma vuole essere alto e drammatico? Ma anche se fosse, io non rintraccio delle strumentalizzazioni così evidenti, e se anche ci fossero le giudicherei solo come espedienti narrativi per portare avanti una storia, quella di una maternità che non arriva e quella di una paternità frustrata. Lo sfondo bellico, che non è poi così decorativo, anzi è molto politico e sentito, può ben essere solo un operatore narrativo per dare ancor più drammaticità alle piccole storie che si intrecciano – efficace a questo proposito l’immagine della stanza di Hasca, dove i protagonisti si erano morbosamente avvicinati, e vederla esplodere sotto le bombe di Sarajevo con il quadro di Kurt Cobain che si lacera come i muri colpiti dalla guerra.

Da questo punto di vista quindi, non c’è strumentalizzazione, e una delle più grandi tragedie umane della contemporaneità, una guerra straziante, disumana, orribile e bestiale consumata a poche ore da casa nostra, e che non ci ha lasciati del tutto indifferenti, ma comunque abbastanza distaccati al sicuro nelle nostre case inviolabili, quindi una guerra che a noi italiani ci ha interrogato e forse mostrato la faccia scura della medaglia buonista e del mito dell’italiano sempre solidale, sempre pronto al volontariato, all’aiuto umanitario, viene qui raccontata con grande realismo, non quello dei padri dell’avanguardia italiana del novecento, bensì quel realismo duro e reale, per niente poeticizzato, documentaristico, nudo e crudo diremmo, che ci restituisce come uno schiaffo a freddo tutta l’indifferenza e tutte le colpe implicite o anche volute e maturate del popolo italiano durante gli annidi quella guerra – a completare il quadro indicherei Il carniere di Maurizio Zaccaro, Territorio Comanche di Gerardo Herrero e Benvenuti a Sarajevo di Michael Winterbottom, tutti e tre del 1997, senza dimenticare un illustre precedente al tema della violenza sessuale durante le incursioni paramilitari: Il figlio del dolore canzone di Celentano e Nada del 2000.

Ma l’aspetto tematico che davvero perturba tutta la pellicola, e ne è a conti fatti il leit-motiv principale e la chiave di lettura dell’intera urgenza autoriale, è il terribile continuo accostamento tra la vita e la morte. Da un lato la ricerca di una maternità che non arriva, il senso profondo del voler essere madre, del voler essere amante e continuare ad amare attraverso una nuova vita generata da quelle due parti che si sono unite in amore; dall’altra la barbarie della guerra, dei muri esplosi, dei cadaveri inermi, di bambini e anziani e donne ammazzati durante la quotidianità, insomma la morte. Come la nascita ingombra della sua presenza ogni attimo del film, la morte le si sovrappone minacciosa.  Alla fine non sappiamo dire se ha vinto la vita oppure la morte. L’unica certezza è che entrambe disegnano le traiettorie della nostra esistenza, ne influiscono ogni passo, ogni scelta, ogni svolta.

Così, forse un po’ troppo melodrammatico – solo Almodóvar riesce ad essere tragico senza perdere “el toque” ironico, leggero, vitale, infine taurino – forse troppo ricattatorio nella sua insistenza al dramma lacrimevole, Venuto al Mondo è un film eccessivo, dove però la grandezza del reparto attoriale – su tutti Emile Hirsch, grande, primitivo, randagio e anche se un po’ troppo sopra le righe, comunque efficace e in parte: la forma iperbolica del suo personaggio è il suo contenuto – e la scelta estetica di sintesi forzata, di analessi e giochi spazio temporali – un plauso al trucco di invecchiamento di Cruz e Haskovich – non solo mitigano l’eccesso melodrammatico, ma ne sono l’eco estetica che non lo fa mai apparire falso ed eccessivo. Qualche scelta più sobria non sarebbe stata male, ma ci sono momenti del film in cui vorremmo scoppiasse una guerra nella guerra, un’esplosione di pathos e lacrime che purifichino ed esorcizzino tutta la commozione e la tenerezza che il film ha saputo accumularci nel cuore.

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