Regia di Werner Herzog vedi scheda film
La pena capitale chiude tragicamente il ciclo di un dolore multiplo, che appartiene a diverse persone e ha tanti volti, tutti ugualmente agghiaccianti. Il penultimo film di Werner Herzog non è un documentario sul braccio della morte. Né un’indagine sociologica, né una riflessione etica sulle cause del crimine e sugli strumenti della giustizia. È la storia di un delitto e del suo epilogo giudiziario, raccontata dagli esecutori, dai loro amici e parenti, dai familiari delle vittime, dagli operatori del carcere. Tutti soffrono profondamente, per le mille sfaccettature di quella che, dall’inizio alla fine, e da qualunque parte la si guardi, è un’atrocità irrimediabile. Uccidere ed essere uccisi. Un circuito che nasce e muore solo per distruggere, per porre fine a qualcosa che non avrebbe mai dovuto avere inizio: un progetto criminale che ha preso una piega imprevedibile, una vita che ha imboccato una strada maledetta, il rancore di chi si è visto strappare via gli affetti più cari. Il meccanismo procede da solo, coloro che vi partecipano si mettono al suo servizio, con le azioni o con i sentimenti, senza poterlo fermare. Il condannato Michael Perry affronta l’esecuzione perdonando. Il capo della squadra degli agenti addetti alla nefanda mansione un giorno non ce la fa più, e dà le dimissioni, pur sapendo di non aver ancora maturato i requisiti per la pensione. Tutti, a loro modo, finiscono per arrendersi a ciò che non sono in grado di impedire. C’è un protocollo da eseguire. Che, è vero, è dettato dalla legge, ma non sarebbe così potente ed inarrestabile se fosse semplicemente frutto di istruzioni scritte sulla carta. Ed è certamente sostenuto dall’indignazione della società, che, di fronte a fatti tanto gravi, chiede risposte forti e garanzie di sicurezza. Il percorso esplorativo effettuato da Werner Herzog suggerisce, però, un’altra idea: quella procedura non si riduce ad una forma istituzionalizzata di vendetta. Altrimenti sarebbe facile metterla in forse, discuterla, emendarla, abolirla. Invece essa si sottrae alla dialettica del bene e del male, perché, come la morte stessa, segue il corso di una necessità superiore ed incontrastabile. È sì, un prodotto interamente umano, ma è così radicato nell’anima primordiale della nostra specie da sfuggire al controllo della ragione. È un mostro collocato nell’abisso della nostra condizione di esseri umani, drammatica, irrisolta, imperfetta. A mente fredda si possono invocare principi umanitari o precetti divini, codici penali o criteri di equità. Ma soltanto chi si trova dentro alla questione ha modo di sentire, all’interno di sé, lo strazio infinito che essa procura, e che mette a tacere la voce del raziocinio, facendo urlare quelle della coscienza e del cuore. Werner Herzog vorrebbe arrivare a spiegare, intervistando i protagonisti della storia – un triplice omicidio commesso da due adolescenti per rubare un’automobile – come un assassino possa continuare a proclamarsi innocente, pur in prossimità della fine, e come tale possano crederlo coloro che lo amano. Come una donna possa decidere di sposare un uomo, conosciuto per corrispondenza, che passerà la vita dietro le sbarre per aver ucciso a sangue freddo una signora che, nella cucina della sua villetta, stava preparando dei biscotti. E per aver aspettato il rientro di suo figlio, ed averlo barbaramente trucidato insieme al ragazzo che era con lui. Quella donna, la moglie di Jason Burkett, complice di Michael Perry, spiegherà che è stata anche colpa di un arcobaleno. E che quando due persone sono destinate ad appartenere l’una all’altra, poco importa che ci sia una gabbia a separarle. Dalla prospettiva opposta, la figlia di Sandra Stotler ci racconta che perdere la madre ed il fratello in circostanze così terribili è come entrare in una prigione, che ti esclude completamente dal resto del mondo. Che vedere morire il responsabile di tutto ciò è un’esperienza estrema, ma ti fa tornare a respirare. Werner Herzog vuole sapere, e continua a chiedere sempre nuovi dettagli. Noi ascoltiamo tante parole, ma più la faccenda si arricchisce di elementi, più ci sentiamo confusi. Forse è inutile pretendere di capire. D’altronde, le tragedie forniscono una verità chiarificatrice solo nella finzione scenica. Into the Abyss scava nel fondo dei sentimenti, ma rispetta la loro indefinibilità, la loro relatività che è l’assoluto di chi ne è portatore. Non sono variabili sulle quali costruire un’equazione che possa aiutarci a decidere cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Perché nemmeno la colpa appartiene alle certezze. I dati del problema sono incisi nella carne, da cui non è possibile estrarli per specularci sopra.
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