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Return to Murder

Regia di Dan Said vedi scheda film

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La recensione su Return to Murder

di OGM
6 stelle

Una triste e confusa vicenda familiare dà il senso di una tradizione ancestrale ormai agonizzante. Questo film malese è soprattutto una storia di corpi, plasticamente inseriti in una natura aspra e desolata, nella quale hanno perso la percezione delle loro anime. Un anziano padre continua a giocare con le sagome di carta, interpretando immaginari spettacoli di ombre cinesi, quando è pieno giorno e non esiste uno schermo su cui proiettarle. Da troppi anni ha smesso di insegnarle l’arte ai tre figli, che sono diventati un lottatore, un insegnante e un assassino. A lui è rimasta solo la terra, sulla quale qualcuno vuole ad ogni costo mettere le mani. È una squallida questione di soldi, in nome della quale si sono calpestati anche i diritti dei morti. Le salme sono state sgomberate da quel luogo, ed un giovane uomo non trova più la tomba della madre. Tutto è bunohan, omicidio, perché la vita significa la continuità con un passato che si vuole cancellare. La legge del profitto prevale sul rispetto. La carne è messa in vendita sul ring, dove le vengono inflitte ferite sempre più profonde, che, alla fine, nemmeno la magia degli sciamani è in grado di guarire. Il sangue si versa e si mescola col veleno. L’atmosfera è intrisa di sudore freddo, una secrezione meccanica che odora di  cinismo e non ha più nulla di umano. Persino il rituale silenzio della religione degli avi si è tramutato in una reticenza perfidamente allusiva, involuta ed oscura come il linguaggio con cui i malfattori stipulano le loro intese. La verità è stratificata in sotterfugi, ognuno segue il proprio piano segreto, che comporta una vendetta mortale o comunque una speranza legata tragicamente legata all’aldilà. Le trame si intrecciano formando un tessuto fitto e torbido, come le paludi in cui ci si nasconde e ci si perde, si incontrano i fantasmi e si finisce divorati dai coccodrilli. Il racconto, anziché dipanarsi verso la chiarificazione, si avviluppa in una matassa sempre più carica di significati multipli, di ambiguità maliziose e di enigmi mistici. Impossibile isolare un filo conduttore. La modernità, nelle campagne selvagge, è l’ansimare privo di  passione di un mondo che va alla deriva. Uno smarrimento a cui si partecipa, da spettatore, affondando nel caos del non detto, mentre si assiste al languido dissolversi della coerenza della ragione e della fedeltà del sentimento. I legami si sciolgono, a cominciare da quelli della lealtà e della fratellanza. Ci si allea solo per rubare e per tradire.  La società è un sistema di loschi accordi e di egoismi incrociati, nel quale i ruoli sono poco chiari, perché mancano i sistemi di riferimento: la violenza si esercita senza le regole del combattimento, e senza il codice d’onore delle organizzazioni criminali. Il cinema asiatico mette da parte i collaudati schemi delle sue leggende guerriere, dalle arti marziali alle mafie, per lasciarsi contagiare dalle crisi di identità del terzo millennio, con la globalizzazione che cancella i localismi per esaltare errabonde forme di individualismo. Nella sceneggiatura di Dan Said la suggestione d’insieme prevale sul contenuto narrativo, che fornisce soltanto il ritmo di un lungo e convulso canto d’addio. La ferocia ha deposto il suo stile epico per diventare una semplice impennata di istinto, che, per un attimo, infiamma il livido torpore di una poesia ormai spenta. È lo stanco lirismo delle briciole sparse, che è faticoso raccogliere e mettere insieme. Bunohan ci prova, con onesto impegno e senza illusioni, e con la sola ambizione di continuare a trovare, anche nel vuoto, il magico conforto della bellezza.

 

Questo film è stato selezionato per rappresentare la Malaysia agli Academy Awards 2013.

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