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De bon matin

Regia di Jean-Marc Moutout vedi scheda film

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La recensione su De bon matin

di EightAndHalf
4 stelle

Una mattina come le altre, un individuo come gli altri, un lavoro come gli altri, il conformismo della modernità (possibilmente finanziaria) impacchettato e inquadrato per benino da Jean-Marc Moutout nel flusso irrisoriamente caotico del pensiero di Jean-Pierre Darroussin, che forse ci mette tutto se stesso o forse lui stesso non fa abbastanza benché certo non aiutato da una pellicola che vira verso il tedio bianco asettico. Il dilemma per cui tutto potrebbe essere più complicato di ciò che si sta vedendo c’è ma è tanto evanescente quanto l’interesse durante la visione del film; se invece rivolgiamo l’attenzione a quello che è lo stile di Moutout, non possiamo fare altro che darci una serie di pizzicotti per destarci e capire che la sua non è una vera regia. Delicatezza e pudore cozzano con violenza e compiaciuti shock come vittimismo e (supposta) empatia rincorrono guizzi visivi che si contano su un singolo dito di una mano (l’improvviso oltrepassare di una serranda stile Antonioni-accelerato come nella simulazione visiva di un suicidio mai commesso in tali circostanze), ma nonostante tanta incoerenza e tanta disturbante ignavia regna il piattume più assoluto. E’ chiaramente il contenuto ciò che più interessa, ma più gli esseri umani, complessi turbati e disturbati, o il loro contesto, modernità schiacciata dallo spirito aleggiante del capitalismo (che chi lo sente è bravo)? Basterebbe pensare al buon Risorse umane di Cantet per capire che sull’argomento (economia e lavoro, in generale) il cinema francese ha già dato e con esiti ben più eccellenti, pur nell’assoluta pacatezza che fa tanto français, e di cui  in De bon matin sitrova solo una triste emulazione. E dunque è inevitabile giungere alla conclusione che la pellicola di Moutout è portentosa noia agghindata e ripulita, che degli esseri umani pensa di dire molto di problematico ridistribuendo ritriti gli ingredienti della solita tragedia umana da middle class, questa volta però addossando poche responsabilità al suo protagonista. Non è d’altronde la realtà che lo circonda il vero freno di quella sua vita che pure si propone tanto fremente e passionale ma che riceve sempre bastonate, riverberi e ostacoli? Le colpe sono ben dosate, e le varie lentezze espressive non sono sufficienti a destare dubbi o ambiguità; al massimo rallentano il processo di consapevolezza dello spettatore, che capisce solo dopo di essere stato in qualche modo “trascinato a forza” fino alla fine da una coerenza intellettuale che magari gli imponeva di vedere il film proprio fino alla fine ma che non lo ha portato a nulla se non a 91 minuti al limite dell’(agognato) oblio. Già dall’immediato succedersi dei ricordi, subito dopo la prima scena inevitabilmente sconvolgente nella sua freddezza compiaciuta, capiamo che di problematicità ce n’è ben poca: il capo è un pezzo di merda che non guarda in faccia  nessuno, e addirittura fa indossare al nostro buon protagonista, inetto ma umilmente probo, i panni dello sporco collega traditore, quando una collega viene licenziata e lei stessa si convince che è stata colpa sua (del protagonista) e non del capo cattivone. E come spiegarsi altrimenti la figura del nuovo collega, occhialuto simpaticone che da buon leccaculo trova il consenso del capo e il dissenso del nostro povero inetto che fa dell’inettitudine il suo unico difetto (anche abbastanza forzatamente) criticabile? Per non parlare poi del rapporto col figlio, adolescente problematico probabilmente assiduo fumatore, amico e quasi fratello di un ragazzo straniero di colore vicino alla famiglia e probabilmente in Francia per studiare, come a non volersi far mancare nulla tra cui la difficoltà delle nuove generazioni ad affermarsi (sia nel mondo lavorativo che nel mondo esistenziale) e l’integrazione razziale. Ma a dirci quanto fa schifo la nostra quotidianità siamo tutti bravi, e a parlare di alienazione ancora di più, quantomeno però quando capiamo cosa vuol dire, cosa possa comportare e quali drammi umani ne possano scaturire: non è tutto sempre riconducibile a stoici atti di violenza che imperturbabili sconvolgono le solite finte quiete ipocrisie da ufficio, esiste anche una quotidianità che deve fare i conti con se stessa e non con la concretezza, che contingente ha un suo ingombro ma è sempre, nel bene e nel male, un mezzo più o meno affrontabile. Invece no: forse è inevitabile un cupio dissolvi nell’annichilente presente barboso e denso di tedium vitae, ma tra arroganze autoriali e seriosità in pillole, di identificazione se ne trova tanto facilmente quanto un ago nel pagliaio.

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