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Gambit

Regia di Michael Hoffman vedi scheda film

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La recensione su Gambit

di miss brown
4 stelle

Da moltissimo tempo non rivedevo GAMBIT-GRANDE FURTO AL SEMIRAMIS dell'inglese Ronald Neame, grande direttore della fotografia e solido regista (da IL GIARDINO DI GESSO a POSEIDON, da WHISKY E GLORIA a DOSSIER ODESSA). E' un grazioso giallo-rosa del 1967, datato ma ancora divertente, e sono andata a ripescare il dvd in occasione dell'uscita di questo remake di ben 45 anni dopo. Protagonisti erano Michael Caine (truffatore proletario londinese, finto lord) e Shirley McLaine (ballerina “a gettone” di Hong Kong), che in cambio di 5.000 sterline lo aiutava nel tentativo di mettere nel sacco l'astuto arci-miliardario Herbert Lom, scambiando una preziosissima statua della sua collezione con una copia. Trama piacevole, anche se un tantino macchinosa, e regia molto ritmata e fisica, dato che gran parte del film si svolgeva all'interno dell'esotico Hotel Semiramis, abitazione del miliardario e sede della sua inestimabile raccolta d'arte, ed era tutto un rincorrersi fra porte segrete e ascensori trabocchetto, viaggi in elicottero e ritorni in taxi, e una scena di furto schivando le cellule fotoelettriche copiata in seguito da tutti. Alla fine il truffatore, pentito, rinunciava all'ambita preda e alla carriera di fuorilegge per amore della sua bella complice, nonostante tutto una ragazza per bene. La sceneggiatura era del versatilissimo Alvin Sargent, americano, Oscar per GIULIA e GENTE COMUNE (suoi sono anche PAZZA e i tre SPIDER-MAN) e dell'inglese Jack Davis, specializzato in commedie per famiglie (sua la spassosa QUEI TEMERARI SULLE MACCHINE VOLANTI).

 

La sceneggiatura-remake, con la prestigiosissima firma dei fratelli Joel e Ethan Coen, sembra che circolasse da una cassetto all'altro delle case di produzione da almeno 15 anni, senza mai trovare uno sbocco. Pessimo segno. Purtroppo un paio d'anni fa è finita nelle poco capaci mani del regista Michael Hoffman (al suo attivo i graziosi BOLLE DI SAPONE e UN GIORNO PER CASO, ma anche il terribile IL CLUB DEGLI IMPERATORI e la più orrida e imbarazzante versione cinematografica mai vista del SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE): evidentemente era sua intenzione recuperare temi e ritmi della vecchia screwball comedy, ma nonostante l'ottimo cast ne è uscito un risultato veramente misero.



Lionel Shabander (Alan Rickman biondo!) è un super-magnate dei media, un bastardo arrogante e cafone, nonché maniacale proprietario di una ricchissima collezione di quadri impressionisti. Harry Deane (Colin Firth) ne è il mite e maltrattato curatore; stufo di essere poco considerato decide di vendicarsi organizzando una truffa con l'aiuto del Maggiore Wingate (Tom Courtenay), anziano falsario. Si tratterà di rifilare al suo capo per 12 milioni di sterline il falso Monet “Covoni di grano al tramonto”, compagno del “Covoni di grano al mattino” già di proprietà del miliardario. Il quadro era dato per disperso durante la Seconda Guerra Mondiale, ma è stato miracolosamente rintracciato a casa di PJ Puznowski, campionessa texana di rodeo (Cameron Diaz): suo nonno, sergente dell'esercito Usa, se l'era portato a casa come souvenir, totalmente ignaro del suo reale valore. In cambio di 500.000 sterline (ah, l'inflazione!) la ragazza accetta di collaborare all'imbroglio e segue i due a Londra. Il piano truffaldino è stato preparato meticolosamente, ma naturalmente, come prevede la Legge di Murphy, tutto quello che potrebbe andare storto lo fa; solo in extremis la situazione si risolve nell'inevitabile lieto fine.

 

Le premesse non erano male; non c'era da aspettarsi un capolavoro assoluto, ma che cosa non funziona, al punto di rendere questo film quasi inguardabile? In primo luogo, purtroppo, davvero la sceneggiatura: non è dato sapere quanto sia stata rimaneggiata in sede di lavorazione, ma non si riesce a credere che i fratelli Coen, maestri acclamati di ironia, che certo ci hanno abituati ai loro lampi di genio stravaganti, abbiano potuto partorire un tale obbrobrio. Se esistesse una legge che punisce l'abuso di stereotipi etnici si meriterebbero almeno vent'anni di galera: va bene evidenziare il contrasto linguistico e culturale fra inglesi e americani, ma qui davvero si esagera. Stesso discorso per gli schiamazzanti ospiti giapponesi che si esibiscono al karaoke alla festa del miliardario e per l'imbarazzante marchetta di Stanley Tucci, malamente sprecato nella comparsata di critico d'arte tedesco: da piangere di rabbia. Tutta la sceneggiatura è poi costellata da gag volgari e scenette a doppiosenso noiosamente ripetute, per non parlare dell'uso e abuso di sputi, vomito e scorregge. Lo spaesato Colin Firth da un certo punto in poi va in giro senza pantaloni: eccellente attore drammatico, affascinante nella commedia classica e romantica, la farsa proprio non fa per lui, che fornisce una pessima imitazione del sublime Rowan Atkinson/Mr. Bean. La recitazione di Alan Rickman è assurdamente forzata, il personaggio da semplicemente becero e prepotente diventa man mano sempre più idiota e volgare. Cameron Diaz ha ormai raggiunto la quarantina e comincia a non reggere più in questi ruoli da ragazza volgarotta e di buon cuore, inespressiva com'è per i lineamenti paralizzati dal botulino che le permettono soltanto di spalancare a dismisura la sua enorme bocca. E dalla patente di regista di Michael Hoffman vanno tolti almeno 10 punti per la totale incapacità di tenere il ritmo senza sedersi ogni 5 minuti.

 

Si salva qualcosa allora? All'inizio, inaspettati, facevano ben sperare i titoli di testa: a cartoni animati, molto anni '70, ispirati nello stile e nella musica a LA PANTERA ROSA. Un piacere rivedere il sommo Tom Courtenay (sparito da decenni dalle scene se non per parti piccolissime e recuperato di recente al ruolo di protagonista in QUARTET di Dustin Hoffman) in una parte di co-protagonista piccola ma incisiva, ben scritta e se Dio vuole del tutto priva di volgarità. Impeccabile Julian Rhind-Tutt (NOTTHING HILL, STARDUST, THE HOUR) nei panni del ficcanaso, ma britannicamente imperturbabile concierge dell'Hotel Savoy. Decisamente troppo poco per salvare l'operazione dal totale naufragio.

 

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