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Il cuore grande delle ragazze

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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La recensione su Il cuore grande delle ragazze

di LorCio
7 stelle

Nell’epoca del pensiero debole e della mancanza di modelli e punti di riferimento, Pupi Avati è una sorridente certezza perché agisce nella buonafede e seguendo un principio fondamentale: non illudere. A parte qualche sporadica occasione (anche se la maggior parte di noi non si aspettava chissà che perle da film minori come Gli amici del bar Margherita o Il nascondiglio), negli ultimi anni il buon Pupi non ha deluso le aspettative. Il punto sta proprio qui: le aspettative che abbiamo verso i film di Avati non sono mai ambiziose, perché sappiamo quali sono le ossessioni e i piaceri (e anche i limiti) del nostro. Insomma, conosciamo il nostro pollo, che più invecchia e più assume le sembianze di un gustoso e succoso cappone natalizio.

 

Il cuore grande delle ragazze ha appunto l’atmosfera dei giorni di Natale, dei pomeriggi trascorsi nelle case ad ascoltare le storie del passato, di fronte al camino, con il nonno sulla sedia a dondolo che carezza il nipote più piccolo. Un’immagine così serena è probabilmente la più idonea per dire cosa sia e cosa voglia dire il film (e di conseguenza Avati). Chi l’accusa di realizzare sempre lo stesso film ignora allo stesso tempo che in realtà Avati sta costruendo una specie di enciclopedia sentimentale: in ogni suo film (anche in quelli americani e nei gotici-padani) c’è un’intenzione reale e profonda di immortalare il tempo perduto, rifuggendo la nostalgia più banale e scegliendo invece di rappresentare il tutto con affetto mai bonaccione.

 

Quest’ultima opera non è che la dimostrazione della vitalità del regista, tutt’altro che scontata per almeno una ragione ben precisa: riducendo la storia di base a pochi elementi essenziali (un matrimonio improvviso e osteggiato dalla famiglia di lei per l’atteggiamento libertino di lui), evitando così le trappole della prolissità e della confusione narrativa, Avati si sbizzarrisce nel disegnare i suoi consueti ritrattino a metà tra Gozzano e Campanile (qui abbiamo un’ottima Manuela Morabito come rozza romanaccia seconda moglie di Gianni Cavina con una mano sempre nella patta dei pantaloni e un disprezzo verso l’igiene; Sydne Rome prostituta cieca ad un occhio; Massimo Bonetti che ha avuto ferite nelle parti basse in Libia; la sorella del protagonista a cui non tornano le mestruazioni da nove anni e si è fatta crescere i capelli come Raperonzolo…) con il sapore dei ricordi che hanno l’odore dei corredi chiusi nelle cassapanche in campagna e una simpatia incondizionata anche nei confronti dei caratteri più meschini.

 

Il film ha un ritmo rapidissimo, un passo stranamente svelto, anche se la voce off di Alessandro Haber, per quanto necessaria, è non di rado vagamente pleonastica (ed è l’alter ego di Pupi, che si misura sempre con personaggi che stanno due passi indietro, in questo caso il fratello del protagonista). Nell’itinerario dell’autore si pone accanto a Il testimone dello sposo (anche là c’era un matrimonio in cui non tutto fila esattamente liscio) e La via degli angeli (il contesto rustico e le usanze campestri) e non va sottovalutato il fatto che siamo fuori Bologna, in quella zona abitata dal parentado avatiano e quindi legato ad atmosfere più vacanziere (c’è una specie di attrazione incomprensibile e fatata verso certe cose) e forse anche più puerili.

 

Attraversato dalle note liete di Lucio Dalla (la canzone Andando, citando i titoli di coda, “è eseguita al clarinetto da (come sempre) Lucio Dalla e Pupi Avati”), è abitato da tre prove attoriali maiuscole: Micaela Ramazzotti e Cesare Cremonini (una rivelazione, dieci anni dopo il non troppo brutto Un amore perfetto) sono perfetti per i ruoli (anche se la splendida Ramazzotti a momenti rischia la maniera con la ragazza fessa dal cuore d’oro), ma l’inatteso Andrea Roncato è una sorpresa tutta da godere che si va ad affiancare ai vari recuperi eccellenti di Delle Piane, Abatanutono, Boldi, Greggio, De Sica.

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