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Tutti al mare

Regia di Matteo Cerami vedi scheda film

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La recensione su Tutti al mare

di OGM
8 stelle

Tutti al mare? Sì,  tutti, ma proprio tutti. In questa nazione balneare, in eterna pausa caffè, il posto più naturale per incontrarsi è la spiaggia, lo spazio senza confini delle infinite possibilità. Il caldo induce a spogliarsi, e la consueta commistione di ricchi e poveri, di belli e brutti, di allegri e tristi, di giovani  e vecchi si trasforma in una carnevalesca promiscuità da fiera paesana. Il bar di Maurizio, una baracca affacciata sul litorale laziale, è il crocevia di gente di ogni tipo, giunta lì per i motivi più disparati, tra cui non figura quello di passare una giornata di vacanza. Il riposo, secondo la nostrana accezione del termine, non è infatti mai una parentesi di spensierato relax rigeneratore: è un intervallo della vita che non ne sospende le preoccupazioni, benché disattivi momentaneamente i freni inibitori, lasciando che ognuno cerchi lo sfogo o improvvisi il rimedio che meglio crede. In mezzo al caos, maturano le idee, il pianto si scioglie in chiacchiera, ed anche gli errori e le magagne assumono un’aura divertente. Il luogo comune impazza, perché sotto questo aspetto, noi italiani siamo ferrei conservatori: la futilità, servita in tutte le salse, è uno dei piatti forti della nostra tradizione, che sa confezionare la comicità da una qualsiasi bolla d’aria, purché viziata, satura del respiro di soggetti stupidi ma simpatici, e di uomini saggi ma ridicoli. Siamo i campioni dell’ovvietà che divaga, cultori di monotematiche antologie caricaturali (i colpi di iella seminati dallo iettatore, le défaillance dello smemorato), sempre pronti ad invocare l’arrivo delle più prevedibili gag, desiderosi del loro apporto di rassicurante ripetitività. Questo film pesca a piene mani nel collaudato repertorio della risata televisiva e nazionalpopolare, incorporandovi la solita critica di costume, solo leggermente attualizzata rispetto ai classici temi del varietà di un tempo. Al marito tradito dalla moglie russa si aggiungono le due lesbiche che aspettano un figlio ma sono in crisi,  e al nonno nostalgico della guerra in Africa Orientale fanno da contorno frotte di immigrati, che sono appena giunti su un barcone, oppure sono qui da un pezzo e lavorano, si sposano e procreano e continueranno ad aumentare. Il progresso si amalgama con il pregiudizio, alimentando il generale senso di insoddisfazione, quel sentirsi sempre sull’orlo del baratro che fa scattare, per reazione, la voglia di tirare a campare senza prendere nulla sul serio, vivendo la vita così come viene. Non siamo mai contenti, però sappiamo fare del lamento una spettacolare arte circense, da saltimbanchi dell’esistenza, che non si danno mai per vinti, e compiono stravaganti acrobazie per tenersi a galla. Di questa magia fanno parte i nostri miti e le nostre piccole manie, ossia tutto ciò che veneriamo fuori da ogni ragionevolezza, eppure sbadatamente ci lasciamo sfuggire (la celebre presentatrice che va alla deriva su un canotto, il fantino che smarrisce il cavallo, il poeta che declamando versi ha perso il senno). Siamo così: casualmente viscerali e impudentemente approssimativi, abituati al dolce naufragare in un mare di pasticci. Siamo gli assidui frequentatori del Casotto immaginato da Sergio Citti, quel geniale interprete della nostra pittoresca mediocrità che Matteo Cerami, per bocca del grande Gigi Proietti, inserisce nell’elenco dei sette re di Roma. Tutti al mare ci riporta l’aspro sapore dei suoi ritratti di gente allo sbando, immersa nello sgangherato lirismo dei  morti di fame alle prese con una modernità che vorrebbe sottrarli alla loro amata cultura contadina. Non è un anacronismo vederci così: lo stile di questo film appartiene forse ad un’epoca lontana, in cui il pecoreccio era parte integrante del realismo sociale, ma notare il contrasto è come ritornare alle origini, per chiedersi quanto (poco) da allora siamo cambiati.

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