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Visitor of a Museum

Regia di Konstantin Lopushansky vedi scheda film

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La recensione su Visitor of a Museum

di Peppe Comune
8 stelle

In un territorio che sembra rappresentare un deserto postatomico, coperto da montagne di rifiuti, da scorie radioattive e dominato da luci rossastre che evocano i bagliori del'inferno, i superstiti rimasti sono divisi in due gruppi ben distinti. Da un lato, ci sono i “normali”, esseri razionali che riflettono su quanto è accaduto al mondo e sul futuro più o meno prossimo dell’umanità. Dall’altro lato, invece, abbiamo i “degenerati”, esseri deformi che vivono nel sotterraneo di una grande fabbrica abbandonata. Questi sono dediti al culto fanatico dell’unica religione conosciuta, i cui precetti sono scritti in un libro che non concede speranze al destino dell’umanità.  Aspettano un Messia che sappia liberarli dalla prigione in cui sono rinchiusi. E lo scorgono nell’uomo (Viktor Mikhaylov) che è arrivato fino a quei territori per andare a visitare il Museo. Un luogo mitico che si trova sotto il livello del mare, dove sono custodite le rovine di un mondo sommerso, che solo il ciclo delle maree può decidere come e quando far emergere dalle acque. L’uomo aspetta il momento propizio per arrivarci, e intanto si lascia coinvolgere dallo stato di generale degradazione che lo circonda.

 

Risultati immagini per visitor of a museum film

Visitor of a Museum - Scena

 

 

 

“Visitor of a Museum” conferma la vena “apocalittica” di Konstantin Lopushansky, il cui cinema tende a riflettere le paure legate ad una catastrofe nucleare mutuate, sia dal dirigismo oscurantista che ha caratterizzato la storia recente del suo paese, sia dal più generale clima di diffidenza per il "nemico estero", indotto nel popolo minuto dalla durata quarantennale della “guerra fredda”. L’innalzamento del livello delle acque, i corpi deformi dei “degenerati”, la terra sommersa da montagne di rifiuti che si perdono a vista d’occhio, i colori dominati dalla preminenza di un rosso fuoco, le parole scritte nell’unica “bibbia” rimasta. Sono i segni tangibili di un mondo che ha deragliato dalla sua originaria funzione e che nel caos in cui è piombato cerca di darsi un proprio ordine seguendo le uniche tracce scampate all’estinzione definitiva. Konstantin Lopushansky dà sfogo al suo talento visionario in questa rappresentazione “infernale” di ciò che è rimasto del pianeta terra e le relazioni umane, il suo sguardo è ostinatamente allucinato, impietoso nel soffermarsi sul vizio del genere umano a riporre la propria vita nelle mani di falsi miti e illusorie credenze, laiche o religiose che siano : sulla fiducia estrema concessa alla scienza e sul fideismo acritico offerto alla religione. Un’umanità a cui non concede né speranza né compassione, solo la possibilità di sfuggire alla morte se ci riesce, di sopravvivere nel suo inesorabile declino. Quello tratteggiato dall’autore russo mi pare essere identificabile come un universo prima psichico e poi fisico, legato essenzialmente ai percorsi dell’inconscio che si fanno materia visiva attraverso un’ambientazione “postatomica”, degradata e degradante, che ne proietta le cause disturbanti. Un universo popolato dalle paure ataviche del genere umano, dai limiti dell’uomo rispetto all’immensità del creato, dalle ansie per un destino già scritto, per un futuro che non dà adito a molte speranze. Una prigione a cielo aperto che non concede né vie d’uscita né redenzione, perché al suo interno non si può sfuggire dalla più cupa degenerazione morale. L’unica via di fuga sembra essere il Museo, un luogo mitico innalzato dai “degenerati” al culto del loro Dio, che molti dipingono come abitato unicamente da insidie e tranelli mortiferi. Proprio come “la zona” di Andrej Tarkovskij (in “Stalker”), ma mentre questa rappresenta uno spazio concreto che finisce per fornire le coordinate per un viaggio metafisico intorno ai misteri della conoscenza, il Museo rimane un luogo evocato da tutti ma che nessuno, tra gli esseri viventi, ha mai avuto modo di visitare veramente. Un luogo che si trova sotto il livello del mare e che emerge seguendo i tempi e i modi imposti dalla natura. Si racconta che in esso siano custodite le rovine dei vecchi simboli di un tempo ormai sepolto, che come le ombre di Platone rappresenterebbero le forme ingannevoli di un mondo votato all’autodistruzione. I “degenerati” sono gli adepti dell’unica religione riconosciuta, la loro ostinata fedeltà ad un Dio che non li ascolta, il loro martirio terreno, la mortificazione estrema scolpita sui loro corpi malformati, li fa assurgere a simbolo archetipo di una maledizione senza fine. “Lasciami uscire di qui”, gridano ripetutamente, come se si trattasse di una litania salvifica che gli serve ad invocare la fine della loro eterna prigione. Perché il cammino che l’uomo compie sulla terra non è opera sua, l’uomo si muove come una marionetta in mezzo all’universo caotico che lui stesso ha generato (“Dio si è nascosto e dappertutto regna l’inferno, ogni cosa che l’uomo fa è inferno”, c’è scritto da qualche parte). Non gli resta che espiare le sue colpe, non gli resta che invocare l’aiuto dell’unico Dio rimasto, nella speranza che ascolti gli ultimi rantoli della sua sofferta agonia, del suo muto dolore. L’uomo diventa suo malgrado partecipe del folle delirio che impera su questa terra (“Egli si farà carico delle nostre suppliche presso la sede della giustizia. Ma non comprenderà il suo mistero, ne comprenderà il suo percorso”), l’oggetto di un’idolatria da cui non può sfuggire senza averla penetrata fino in fondo. Il tramite riconosciuto di un Dio che pronuncia solo parole cariche di tristi presagi (“Non avrà il dono della profezia, né della guarigione, né il dono della provvidenza e neanche quello delle lingue. Ma dovrà essere ascoltato perché tramite delle preghiere dei disperati. Nel giorno decisivo intercederà per voi e sarà l’ultimo, non potrà esserci nessun altro. Amen”). Il suo viaggio “dantesco” verso il Museo, tra gente che non ha disperso il vizio dell’eccesso e corpi martirizzati dalle colpe, lo conduce ad un’unica scoperta possibile : che l’uomo è solo con le sue urla di dolore.

L’aria irrespirabile che sembra fuoriuscire dallo schermo, i resti tumefatti di un mondo che si è lasciato ubriacare dai deliri di onnipotenza, i rifiuti cancrenosi che penetrano nelle arterie maleodoranti di quanto è sopravvissuto, i colori “metallici”, testimoni oculari della dannazione sopraggiunta che avvolge e coinvolge ogni cosa. Con autori come Kontantin Lopushansky, è la tecnica cinematografica a chiarire le forme della messinscena con una ricercata precisione iconografica, a fare in modo che la regia che teorizza una delle forme possibili della fine del mondo si concretizzi in prassi attraverso la potenza visiva delle immagini. “Visitor of a Museum” è certamente un’opera figlia del suo tempo, ma conserva un fascino “ipnotico” che non ha tempo. Un grande film.    

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