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Exit: Una storia personale

Regia di Massimiliano Amato vedi scheda film

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La recensione su Exit: Una storia personale

di OGM
8 stelle

Il cinema indipendente è fatto di storie difficili. Solo così può mettere a frutto la propria libertà, affrontando sfide che richiedono essenzialità di mezzi e semplicità di linguaggio.  La malattia mentale è una di quelle questioni radicali, primitive, ostinatamente ribelli, intorno alle quali è inutile sprecare il fiato: è l’anima di tanti universi individuali che ci sono preclusi, che sono abitati da un unico essere, isolato, incompreso, in eterno conflitto con il resto del mondo. È l’infernale gabbia dell’incomunicabilità, che invia all’esterno segnali di sofferenza e riceve soltanto risposte inutili e umilianti.  Marco non ce la fa più, e vorrebbe evadere, in qualsiasi modo. Maurizio, che nella comunità di riabilitazione era il suo compagno di stanza, ha imboccato una via estrema e definitiva, saltando dalla finestra. Ma per Marco è inaccettabile il pensiero che la fuga non sia possibile altrimenti, in una maniera meno disperata e più dignitosa. Lo sguardo del regista e sceneggiatore Massimiliano Amato si perde, su di lui e insieme a lui, girovagando attonito in un ambiente dall’identità indefinita, un mosaico incoerente di volti familiari ma distanti, e di paesaggi cittadini spiati di traverso, e trattati con diffidenza, come gli sfondi di un’allucinazione. Roma è lì  intorno, con le sue strade, i suoi ponti, le sue piazze, i suoi casermoni di periferia, eppure stentiamo a riconoscerla, come se avessimo gli occhi socchiusi. Forse a Marco la realtà appare davvero così, confusa nella nebbia di un ricordo che corrisponde ad un frammento dismesso della sua vita: quello in cui suo padre si trovava in carcere, poco prima che morisse. Adesso per lui l’esistenza è ridotta all’enigma di come uscirne, preferibilmente da solo, perché non si fida più né dei medici che lo assistono, né del fratello Davide, che è pronto ad aiutarlo, però è troppo immerso nella sua normalità di uomo sano di mente per poter capire la sua angoscia. L’obiettivo della macchina da presa descrive il suo disorientamento viaggiando a bordo di un satellite finito fuori orbita, che ruota all’impazzata cercando una traiettoria sensata all’interno del caos. I desideri di Marco sono costretti a percorrere vie tortuose, tentando continuamente di scantonare, per evitare l’incontro con la frustrazione del rifiuto. Quel ragazzo vorrebbe guarire, ma non accetta la terapia di risocializzazione a cui è sottoposto, e vorrebbe tornare in ospedale. Inoltre ha bisogno dell’affetto di una donna, che sarà una prostituta del quartiere a luci rosse di Amsterdam. Recandosi, di nascosto, in quella città, Marco insegue un altro sinistro miraggio, che si chiama eutanasia psichiatrica. Una “salvezza” segreta che, volendo, si può comprare, come certe pasticche che si vendono in giro. La struttura circolare e l’andamento barcollante di questo film ci rivela che, nella situazione senza scampo in cui si trova il protagonista, il punto di arrivo è precisamente quello in cui ci si smarrisce, in cui la separazione tra sé e gli altri risulta chiara e irreversibile, perché la vicinanza che ci si sforza di realizzare può essere solo temporanea, e puramente fisica. Marco resterà sempre e comunque altrove, a dispetto dell’impegno di Davide, che non smetterà mai di rincorrerlo. Exit – Una storia personale è il tetro caleidoscopio di una follia monocolore, rinchiusa dentro un labirinto di vertigine nel quale affonda la speranza, non prima di dibattersi in un tutto freddo e inanimato, che assomiglia tanto al nulla.

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