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Una sconfinata giovinezza

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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La recensione su Una sconfinata giovinezza

di OGM
8 stelle

La memoria si perde, e la vita, improvvisamente, si allarga. Più la coscienza si distacca dalla quotidianità, più la mente si apre alla fantasia, senza pudori o inibizioni, senza quei limiti imposti dal dovere di obbedire alle richieste del presente. Lo stesso cognome del protagonista, il giornalista sportivo Lino Settembre, a cui una malattia neurologica degenerativa sta rubando la lucidità, è l’evocazione di un sole al declino, che acceca mentre si abbassa sull’orizzonte, riproponendo le sensazioni luminose e spensierate dell’estate appena trascorsa. L’oblio accorcia le distanze del tempo, avvicinando i lembi dell’infanzia e della vecchiaia, e cancellando la lunga, uniforme mezza stagione della cosiddetta età matura. Lino, congedandosi dalla sua esperienza di uomo colto e navigato,  ritorna alle birichinate infantili, alle illusioni ancora immuni dai compromessi con la realtà: il suo pensiero si rituffa nell’atmosfera soffusa della campagna natia, dove la magia viveva al riparo dagli sguardi indiscreti delle rutilanti luci della città. Per Lino, andare alla deriva è come riscoprire la poesia grezza dell’incoscienza, di quello stupore per la vita non ancora disciplinato dalla sottomissione alla ragione e agli usi della civiltà. Credere nei miracoli, sognare un amore da favola, fare incontrare, nel gioco, la vita e la morte, il sentimento e la carnalità, la gloria e l’umiltà, sono le attività di chi, non essendo ancora costretto a scegliere e ad assumersi delle responsabilità, può crearsi un universo su misura, in cui il compagno di scherzi  è un  piccolo stregone che fa risuscitare i defunti, l’amica contadina è una fata ammaliatrice, i tappi a corona lanciati nel fango sono i campioni di ciclismo del momento. Dimenticarsi di stare al mondo è un’ebbrezza che incanta, ma può fare molto male: la condizione di Lino, che unisce l’allucinazione solitaria alla disperazione dell’abbandono, è piena delle suggestioni alchemiche e silvestri del primo Pupi Avati, in cui orrore e poesia si baciano in mezzo alla nebbia, dando origine a quel mostro bifronte che è il Mistero. La nostalgia ha un volto grottesco, come quello della vita vista dalla prospettiva della morte, in Zeder come in Una gita scolastica. È un aldilà anche quello in cui sta sprofondando Lino: è la classica interminabile caduta all’indietro,  dentro una voragine senza fondo, che risucchia in quel nulla che si è, nel frattempo, sostituito al passato. I personaggi di allora sono ridotti a maschere funerarie, a visi incrostati di polvere, a  cartapeste senza consistenza né vitalità. Di ciò che è stato rimane solo un’impronta vuota, una copia anacronistica: gli amici di Lino, come quelli del Bar Margherita, sono morti o hanno perso lo smalto,  il suo ritorno al paese natale è, come il matrimonio di Giordano ne La seconda notte di nozze, un’inutile replica di uno spettacolo ormai fuori cartellone. La prepotenza del ricordo, lo sconvolgente paradosso del ritorno impossibile sono i temi che da sempre infondono, nella cinematografia di Avati, l’amarezza per il tratto di cammino che è  già stato percorso: un sentiero un tempo ridente,  che si è coperto di sterpi, ed è, oramai, diventato impraticabile.

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