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Una sconfinata giovinezza

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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La recensione su Una sconfinata giovinezza

di LorCio
10 stelle

Sembrerà paradossale, ma Pupi Avati è il regista italiano più francese in circolazione. Dello stile francese, e per francese intendo principalmente letterario, Avati conserva il naturalismo della messinscena, che, attenzione, nonostante sia caratterizzata dalla miscellanea nostalgica filtrata nei ricordi d’infanzia, è principalmente impersonale. Perché i personaggi di Avati sono scritti in punta di penna, e il coinvolgimento dell’autore è addirittura solo apparente. Nessuno mette in dubbio che dietro quel bambino dei ricordi infantili del protagonisti ci sia il regista bolognese. Ma io non metterei in dubbio neanche il fatto che quel bambino sia la proiezione universale dell’epoca che racconta. Un io lirico che ha l’ambizione necessaria di rappresentare tutti.

 

Comunque sia, la maggior parte dei cinefili si ostina a relegare Avati ad una dimensione di eterna medietà, come se fosse l’eterno autore rimasto in mezzo al guado. Ma la medietà di Avati ha il passo del classico, e le ragioni sono svariate – è uno dei pochi in Italia ad avere un tocco riconoscibile sempre. D’altronde Avati è convinto di non aver ancora realizzato il suo film della vita. In fondo ha diretto Regalo di Natale (cinico ed impietoso), Una gita scolastica (fine ed elegiaco), Magnificat (nobile e rude), La seconda notte di nozze (delizioso e fuori tempo), La casa dalle finestre che ridono (cult). Sì, bei film. Ma non il film della vita.

 

Una sconfinata giovinezza parte con la voce off di Chicca, professoressa di filologia romanza, che ricomincia a scrivere il proprio diario dopo tanti anni. Dopotutto, “un diario non serve quando sei felice”. La sua felicità (senza figli, in una famiglia in cui si cova che è una bellezza) si chiama Lino Settembre, brillante giornalista sportivo, fino a quando, da attenta moglie qual è, si accorge che qualcosa non va (“Cosa mi sta succedendo?”, si chiede smarrito di fronte alle continue dimenticanze di cui è vittima). E in effetti, dopo qualche avvisaglia, si scopre che Lino sta manifestando i primi sintomi del morbo di Alzheimer. Da qui parte una nuova fase della loro felicità malata, che principia con una terapia del distacco per poi sfociare in un rinnovato ed inedito rapporto, in cui Lino torna alle atmosfere dei suoi giorni migliori quasi senza rendersene conto (“Ognuno di noi è stato ragazzo, ma lui troppo!”). Epilogo struggente.

 

L’autore bolognese, uno dei pochi a saper raccontare i sentimenti del declino, mette su la sua prima storia d’amore (ma in realtà, a ben vedere, in tanti altri suoi film c’erano storie d’amore) pura ed assoluta come solo l’amore (quello vero) sa essere. È la storia di un amore normale che si ammala e diventa crudele, spietato, disperato. In questo amore che lentamente tramonta amaro, non per volontà ma per imposizione, riaffiorano i ricordi di un’infanzia perduta, che si confonde col presente, si mischia, si intrufola, si innesta con il quotidiano del dolore. E sembra essere proprio il dolore una delle cifre caratterizzanti del film: probabilmente represso negli anni adolescenziali, dopo la morte dei genitori in un incidente stradale (in cui si è salvato solo il cane, battezzato Perché) e la scoperta delle pulsazioni erotiche ovviamente castizzate; rimosso nella vita di mezzo, contraddistinti dall’assenza di un figlio; e terribilmente esplicito, lancinante e tormentato nella maturità determinata dalla malattia (ma anche l’incontro di Chicca con la moglie di un suo collega è di tragica angoscia).

 

Ma c’è spazio per la dolcezza anche nel dolore: cosa c’è di più dolce di quella scena in cui Chicca si accovaccia a terra con Lino per giocare alla pista dei ciclisti (i cui volti sono ritratti sui tappi delle bottiglie)? Il figlio mai avuto si proietta nel marito perduto. Se volessimo collegarci alla trilogia dei padri (il padre infantile de La cena per farli conoscere, il padre totalizzante de Il papà di Giovanna, il padre assente de Il figlio più piccolo), Lino potrebbe essere il padre mancato. In questo film che vive di mezzi toni, di enfasi fortunatamente strozzate, di evidenti ritratti biechi in opposizione al candore del protagonista (su tutti lo spietato tassista di Gianni Cavina e la reticente vedova Erika Blanc) – e anche di qualche scompenso narrativo o strutturale (non sempre credibile l’ambientazione borghese del silente coro dei comprimari, non sempre funzionale la voce off, non sempre pertinente il montaggio dei flashback) – la delicatissima materia è affrontata con una sensibilità rara sin dal titolo: la sconfinata giovinezza è l’effetto dei ricordi negati dalla memoria crudele. È sconfinata la parola chiave: riuscendo a non essere mai deprimente, è proprio la tristezza (dignitosa e poetica) ad essere tale.

 

Disincantato, dimesso, senile e scarno, è un film bellissimo che si muove sulle note decadenti di Riz Ortolani vivendo della mastodontica interpretazione di Fabrizio Bentivoglio in un ruolo larger than life e della Francesca Neri migliore di sempre. Ecco, forse quel film di cui parlavamo prima è arrivato. Nessuno sarà d’accordo con me, ma Una sconfinata giovinezza, con i suoi difetti e i suoi errori, è il capolavoro di Pupi Avati, il suo film della vita. Perché? Perché mi ha fatto emozionare come poche altre volte recentemente mi è accaduto in una sala cinematografica. E poi per quel finale, il più straziante degli ultimi anni.

 

“Dove vanno tutti i bambini che scappano? Perché è così segreto e irraggiungibile quel luogo? Perché le loro mamme non sanno trovarlo?”.

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