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Una sconfinata giovinezza

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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La recensione su Una sconfinata giovinezza

di mc 5
8 stelle

Ero piuttosto prevenuto nei confronti di questo film, forse influenzato da un trailer che avevo subito individuato come strappalacrime e banalmente romanticheggiante. Ammetto di essermi sbagliato, anche se il discorso non è così semplice, e nel corso della recensione spero di riuscire ad analizzarne i diversi aspetti. Sul fatto dello "strappalacrime" non è che mi fossi sbagliato, ma il punto di vista appropriato è un altro. Cioè che il regista affronta un tema estremamente delicato, e tocca certe corde intime e profonde che appartengono ad ogni persona ragionevole e non cinica. Il tema è, precisamente, quello del morbo di Alzheimer, che colpisce tantissime persone in età matura, con l'effetto di scardinare ed attaccare le proprietà di conoscenza del nostro cervello, trasformando gli anziani e facendoli regredire allo stato quasi di fanciulli. Devo a questo punto fare una precisazione del tutto personale, anche per giustificare l'imbarazzo (forse percepibile) delle parole che seguiranno. Vedendo scorrere sullo schermo le immagini di quest'uomo che regredisce ogni giorno che passa, non ho potuto fare a meno di ricondurle alla memoria del rapporto con mio padre nei suoi ultimi mesi di vita. Lui, deceduto per gli sviluppi di un tumore al polmone, non c'è più da circa tre anni. Non aveva l'alzheimer, ma la metastasi che aveva raggiunto il suo cervello lo portava spesso ad assumere attteggiamenti simili a quello del protagonista del film. La sua capacità di ragionare, proprio come quella di Lino/Fabrizio Bentivoglio, si era ridotta ai meccanismi più elementari, peraltro molto circoscritti. E a questo proposito ricordo che ciò che mi faceva più male erano le sue piccole certezze riguardo a cose surreali e del tutto inesistenti, del tipo che appariva certissimo che io avevo un fratello oppure che a casa nostra c'erano diversi coinquilini...tutte cose assurde, ma che io mi ero rassegnato a condividere con lui per non contraddirlo. Tutto questo discorso per dire quanto sia diffcile convivere (cercando di aiutarlo) con chi ormai vive in un suo mondo. Bisogna essere sorretti da una forza spaventosa, forza di cui, nel mio caso, non intendo attribuirmi il merito più di tanto, perchè (devo dire per fortuna) la fase acuta della malattia di mio padre ebbe una evoluzione drammatica piuttosto veloce e non durò più di un paio di mesi. Per questi motivi, credo di aver interpretato nella maniera giusta il sentimento che muove la pazienza e l'affetto di Chicca/Francesca Neri. Una bella donna non più giovane ma ancora molto piacente che, per combattere la sua personalissima dura battaglia contro un destino infame, rinuncia a tutto, compreso l'esprimere una propria potenziale femminilità ancora viva, compreso -suppongo- anche gli aspetti che riguardano la sessualità. Nulla può distrarre Chicca dalla sua missione, che peraltro lei vive con estrema dignità, compensando sacrifici e rinunce con la soddisfazione di donarsi completamente al suo uomo. E c'è a questo proposito un risvolto commovente che va raccontato. Chicca e Lino, pur avendo visto realizzare ogni loro progetto professionale, hanno dovuto patire l'intimo dolore di non avere avuto figli. Ebbene, magicamente, misteriosamente, fatalmente, la regressione di Lino allo stato infantile, va curiosamente a colmare questa lacuna, delineando tra i due coniugi una singolare condizione di Madre-Figlio. E questo rapporto si alimenta di piccole cose, tipo giocare entrambi alla "pista dei ciclisti", episodi che regalano allo spettatore intime suggestioni impossibili da riportare qui attraverso le parole. Ci si rende conto della portata sentimentale ed umana di ciò che accade solo osservando il bel viso trattenuto, a tratti imbarazzato o pensieroso, di Francesca Neri, ma soprattutto il volto (strepitosamente e sapientemente istrionico ) di un Fabrizio Bentivoglio straordinario, il quale peraltro riesce nella "missione impossibile" di evitare la trappola del patetismo. Egli interpreta un affermato giornalista sportivo che si ritrova vittima di un morbo irreversibile, che ne sgretola ogni giorno di più le facoltà mentali, sottraendogli progressivamente la disponibilità di vocaboli e frasi. Lino, nella sua sventura, ha però la fortuna di avere una compagna di vita che si rivelerà eccezionale, donna dotata di buon senso e, semplicemente, d'Amore, ambedue in quantità immensa. E' importante dire che il film si divide piuttosto nettamente in due parti. E a fare da discrimine è un evento negativo che pare tendere a spezzare, proprio fisicamente, il legame tra i due protagonisti, ma qui preferisco interrompermi per non svelare di più. Mi limiterò a dire che in questa seconda parte la vicenda prende una piega sorprendente, abbracciando perfino una direzione che sfiora il soprannaturale, verso un finale che a mio avviso implica anche una incongruenza di sceneggiatura su cui preferisco però sorvolare. Del formidabile talento della coppia Bentivoglio/Neri già ho riferito; ma sempre restando in tema di "cast", è arrivato il momento di aprire una (ampia) parentesi. Una delle caratteristiche peculiari di Avati è quella di fare ricorso, immancabilmente ad ogni nuovo film, ad un singolare "parco attori", quasi tutti volti noti di anziani caratteristi, oppure vecchi e navigati attori di teatro, dando l'impressione di voler disporre di un gruppo d'attori di cui si fida e coi quali ha probabilmente un rapporto quasi più fraterno che professionale. Questo aspetto concorre a supportare l'dea di un regista molto legato alla classicità, ai ricordi, al passato. Unico caso in Italia di cineasta (almeno tra quelli celebri) ad aver mantenuto questo risvolto di antico artigiano che sceglie di utlizzare -appunto- volti antichi. E di tali volti, anche questo film è pienissimo. Isa Barzizza, Erica Blanc, Nino Fuscagni (incredibile! un pezzo di televisione preistorica! era il conduttore del programma cult anni '60 "Giocagiò"), Gianni Cavina (attore feticcio di Avati), Vincenzo Crocitti (deceduto proprio pochissimi giorni fa), Serena Grandi (qui riciclata con intelligenza), Lino Capolicchio (a suo tempo protagonista di una stagione di cinema italiano "arrabbiato" alla fine dei '60), Martine Brochard (indimenticata primadonna di tanti thriller erotici degli anni 70). Altra caratteristica di Avati, nonchè autentico punto di forza di questo film, è l'attitudine ad affidarsi ai ricordi d'infanzia, affondandovi le mani, ed attingendone generosamente in chiave autobiografica. Quelle parentesi in colore seppiato, sul magico e quasi esoterico sfondo del paesaggio appenninico, sono qualcosa di assai suggestivo, che tocca corde particolari, legate ad una cultura contadina arcaica che molti di noi hanno vissuto attraverso le cronache dei nonni e dei bisnonni. Povertà, umiltà, gesti quotidiani che si ripetono rispecchiando l'eterno replicarsi delle stagioni, le stalle, i maiali...tutti elementi di un quadro di civiltà importantissimo, perchè sta alla base di ciò che siamo diventati dopo. E anche se non sono sufficientemente anziano per aver vissuto quell'epoca, lo sono abbastanza per avere immagazzinato nella mente il suono di certe parole antiche, legate ad un linguaggio "parlato" spesso diverso da quello "ufficiale". Per esempio, anche legandomi a termini usati nel film, dire "corridori" anzichè ciclisti, oppure dire "organino" intendendo l'armonica a bocca. Da segnalare la colonna sonora curata da Riz Ortolani, veterano e ormai sodale da decenni del regista bolognese. Mi piace ricordare, sempre in tema di Alzheimer, un bellissimo film del 2006, "Lontano da lei", a cui sono legato soprattutto da due donne che adoro: la giovane regista Sarah Polley e la magnifica Julie Christie, che per quel ruolo ebbe anche una nomination all'Oscar. E vorrei concludere chiedendomi a che punto è il cinema di Pupi Avati. Discorso molto controverso, questo. Che prenderò partendo da lontano. Dalla recente visione de "La passione" firmata da Carlo Mazzacurati. Quest'ultimo affronta nel suo film il tema del rapporto tra l'uomo e il "Sacro", e il bello è che lo fa da uomo/artista LAICO e secondo uno stile chiaramente LAICO. Con Avati assistiamo al processo esattamente OPPOSTO. Egli parla di storie di persone, viste nella materialità dei gesti quotidiani, ma lo fa lasciando trasparire la forte influenza di una cultura di matrice cattolica. Una cultura che pare evocare immagini lontane di sperdute parrocchie animate da sanguigni sacerdoti sullo sfondo delle valli appenniniche bolognesi. Intendiamoci. Avati porta avanti con coerenza una sua idea di Cinema, e su certe cose è inimitabile. E se si esclude il grandissimo Giorgio Diritti, è imbattibile nel recuperare l'autenticità dell'antica cultura rurale delle popolazioni dell'Appennino emiliano. Non è che ci sia nulla di male nel contaminare ogni opera con questa sorta di "retrogusto parrocchiale", ognuno si sceglie le proprie ispirazioni e riferimenti culturali, ci mancherebbe. Io ho però l'impressione che queste "influenze" facciano di Avati un regista che si sa muovere benissimo nel passato, ma che non riesce (o non vuole) confrontarsi col presente. Si può anche ipotizzare che Avati non si riconosca in un presente che non gli piace. Legittimo (nemmeno a me piace). Però un regista moderno e figlio del suo tempo dovrebbe sentire il DOVERE culturale di affrontare (e magari combattere), con l'arma della LAICITA', una realtà che non gli piace. Il film sta incassando molto bene. Certo, in sala non si vede un giovane che sia uno, e la pellicola finisce per avere come unico interlocutore un pubblico di anziani. Ma allora mettiamola così: onore alla scelta di un regista che se ne fotte di compiacere i giovani.
Voto: 7 e 1/2 

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