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Una sconfinata giovinezza

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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La recensione su Una sconfinata giovinezza

di giancarlo visitilli
4 stelle

L’amore ai tempi dell’Alzheimer di Avati di sconfinato ha solo la predilezione per un certo cinema di genere. Il suo, appunto, dalle molteplici suggestioni e continuamente a mezza via tra un’opera di fiction televisiva, con tutta una serie di manierismi, tipici della narrazione da piccolo schermo e la retorica, che ancora contraddistingue molto cinema d’autore nostrano. “E' quasi una favola”, ha sintetizzato Fabrizio Bentivoglio, che interpreta Lino Settembre, un giornalista sportivo, sposato da venticinque anni con la docente di Filologia Medievale, Chicca, interpretata da Francesca Neri. Lino comincia ad accusare problemi di memoria, fino a compromettere in modo sempre più evidente il quotidiano svolgersi delle sue attività professionali e familiari, allontanandosi sempre più  dal presente.

Da sempre, il regista bolognese non ha mai rimosso il protagonismo dei ricordi nei suoi film (Il regalo di Natale,1986; Storia di ragazzi e di ragazze, 1989; Gli amici del Bar Margherita, 2009) e sempre allo stesso modo, alternando il presente e un passato, raccontato facendo ricorso ad una fotografia dai toni seppia. Ma la narrazione, anche questa volta, è piuttosto sconclusionata, oltre che sconfinatamente noiosa, causa anche di un eccessivo alternarsi di passato e presente. E se nella seconda parte del film, la commozione giunge, come una sorta di regola necessaria, trattandosi di un tema molto suggestivo e con cui si fa sempre più i conti sulla propria pelle, è evidente che si tratta di un sentimentalismo d’attacco. Tutto ciò non ha nulla di paragonabile ad Away from her – Lontano da lei” (2006) di Sarah Polley. Nulla, perché la Polley è capace di descrivere la vita di due condannati alla smemoratezza, semplicemente attraverso i solchi lasciati nella neve, per mezzo di una casa in cui le luci che si smorzano rimandando all’estrema narrazione della poesia pura. Cosa c’entra Avati, che di parole e derive poetiche, in questo film, ne ha tante e troppe? Finanche il trucco e il parrucco, qui, turbano e, il più delle volte, disturbano perché mostrati con gli inutili grandangoli, resi drammaticamente tali dall’enfatiche musiche, da drammone, nell’impianto di un montaggio eccessivamente frenetico: il risultato è un eccesso di formalità.

Anche le case romane e Parioline, dove abitano i personaggi di Avati, diventano semplici e vacanti teatri dell’assurdo, insieme al casale di campagna alle porte di Bologna, che più che luogo dell’infanzia diventa un campo santo, in quanto luogo ideale dove ritornano in vita gli scheletri negli armadi (o contenuti in altro), di cui sembra che il regista bolognese non riesca a liberarsi mai definitivamente. Avati non è neanche il primo a raccontare l’umanissima trasformazione dell'amore coniugale in amore filiale: la letteratura e il cinema lo esplorano continuamente, basti ricordare l’ultimo, in ordine di tempo, Benjamin Button di Fincher, solo che in lui lo struggente mistero dell'infanzia sembra non finire mai. Nei suoi film c’è sempre il grigiore autunnale, questa volta personificato addirittura nello stesso cognome del protagonista, presagio di un autunno sempre alle porte. Il cast, nonostante tutto, da Bentivoglio alle prese con una delle sue non migliori interpretazioni, Serena Grandi, il compianto Vincenzo Crocitti, deceduto proprio a pochi giorni dall’uscita del film in sala, fino agli immancabili Lino Capolicchio e Gianni Cavina, ospiti fissi del regista bolognese, si difende bene. Alla fine, ciò che resta è una sconfinata delusione, rispetto al gran chiasso che questo film ha creato, in occasione della sua esclusione dalla ultima Mostra del Cinema di Venezia. Tornano le stesse parole di un dialogo nel film: “Ma è quello della televisione?” “Mi sembra lui” “Sta messo proprio male”. Ma non il cinema italiano, tutto. Quello di sempre.

Giancarlo Visitilli

 

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