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La casa muta

Regia di Gustavo Hernández vedi scheda film

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La recensione su La casa muta

di OGM
6 stelle

Ottantasei minuti di piano sequenza, per questo horror sudamericano ispirato ad un evento realmente accaduto. Il candidato uruguayano al premio Oscar 2012 è basato – così viene dichiarato nei titoli - su un inquietante caso di cronaca, che, secondo alcune fonti sarebbe accaduto nel 1944, e non fu mai chiarito. L’esordiente Gustavo Hernández ne trae una storia di silenzio e di oscurità, interrotta soltanto dalla luce di una lanterna, di una torcia e dai flash di una Polaroid. Il virtuosismo tecnico dell’obiettivo che non stacca mai (e riesce a rimanere invisibile anche quando inquadra, contemporaneamente, le immagini riflesse da due specchi affiancati) si coniuga perfettamente con una tensione da tagliare col coltello, che una sceneggiatura povera di dialoghi e di colpi di scena supporta con la sola forza della visione. Lo sguardo dello spettatore percorre, insieme a quello della giovane protagonista Laura, un luogo buio e sconosciuto, labirintico e pieno di oggetti misteriosi; come può essere, durante la notte, l’interno di una villetta isolata ed abbandonata, in attesa di ristrutturazione, ed ancora ingombra di arredi collocati alla rinfusa. L’esplorazione è, al tempo stesso, indagine e  fuga da un pericolo ignoto ed incombente, forse legato ad una presenza che abita al piano superiore della casa. Laura sente rumori ed assiste ad eventi che fanno pensare all’intervento di un essere malvagio, probabilmente un folle assassino, o forse un demonio, e non ci si spiega come mai la ragazza non decida allora di lasciare quel posto e correre a cercare aiuto. Laura preferisce invece restare lì dentro e continuare a spostarsi, di stanza in stanza, guardandosi intorno con atteggiamento indagatore. La prospettiva adottata dalla macchina da presa è quasi sempre parallela alla sua, solo ad un certo punto viene deviata – si potrebbe dire, violentemente ghermita – da quello che sembra il suo inseguitore. Queste singolarità ribadiscono il ruolo centrale svolto in quest’opera dallo sguardo, dalla curiosità che fa avanzare la storia e ne alimenta la suspense, impedendo che essa si areni sulla desolazione di uno scenario che è sinistro, ma di per sé povero di suggestioni macabre.  Le cose che si vedono, ed il modo in cui queste si vedono, sono i termini entro cui si gioca l’ambiguità del racconto, anche se, a onor del vero, si tratta per lo più di espedienti scelti un po’ a caso,  inseriti per far sorgere interrogativi e confondere le idee, ma poco funzionali alla chiave di lettura proposta dall’autore, e rivelata nell’epilogo. A causa di questa incongruenza, l’esperimento cinematografico è destinato a rimanere tale, pregevole nella fattura, ma non molto convincente nella sostanza, dato che tra l’altro, dimentica di sviluppare adeguatamente gli spunti drammatici presenti nel finale. Dalla sua parte, La casa muda, ha però l’originalità dell’impostazione, che, pur  non essendo completamente inedita – in quanto assimilabile, ad esempio, a quella di REC – si mantiene inequivocabilmente distante dal classico filone delle case maledette.  Questo film, nonostante sia ambientato in uno spazio chiuso, lascia da parte lo scontato canone della claustrofobia, per trasformare le pareti, i mobili, le porte, le scale in elementi di un paesaggio dai contorni indefiniti, in cui è possibile mettere a fuoco, uno dopo l’altro, i singoli dettagli, creando, dal nulla, una sequenza narrativa fatta di piccoli rebus. Una concatenazione a cui, però, manca la coerenza logica, e che si riesce quindi ad assaporare solo sul momento, prima che la soluzione butti all’aria tutte le carte.
 
Da questo film è stato liberamente tratto Silent House (2011), instant remake americano diretto da Chris Kentis e Laura Lau, entrambi reduci, rispettivamente come regista e come cineoperatrice, da Open Water (2003).

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