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L'esplosivo piano di Bazil

Regia di Jean-Pierre Jeunet vedi scheda film

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La recensione su L'esplosivo piano di Bazil

di spopola
8 stelle

L’ultima opera di Jeunet (da noi uscita con più di un anno di ritardo) è una favola autocelebrativa che ripropone con un’ottica tutta particolare, riconoscibilissima e personale e una serie di infinite variazioni, le piccole crudeltà di Delicatessen e le attese struggenti dell’incompreso (per lo meno qui in Italia) Una lunga domenica di passioni, più che il fantasioso entroterra del suo titolo più celebre, anch’esso però assolutamente evidente in sottotraccia.

Questa volta, il regista, dopo aver attraversato più o meno tutti i generi dall’epica al folclore con le sue precedenti prove, strizza soprattutto l’occhio a un Tati in versione più moderna e aggiornata (ma i riferimenti che ci si possono trovare dentro sono molteplici, da Keaton a Chaplin, da Harold Lloyd ai Fratelli Marx, da Edison  a Méliès, alle magiche suggestioni di un Houdini) e  mette in scena uno stupefacente, gradevolissimo ed eccentrico “fumetto” stravagante, feroce, turbolento, colorato, utopico, artificioso e stilizzato (gli aggettivi sono tutti pertinenti), che è  però anche un’acre commedia arricchita da un talento “osservativo” fuori dal comune che gli consente di racchiudere  e condensare elementi ed informazioni di diversa natura e provenienza persino in una sola inquadratura mischiando generi e stili, unendo umorismo nero e drammi personali e accompagnando così  lo spettatore in una visita dentro il  suo privato luna-park  zeppo di attrazioni, mondi paralleli e tocchi di poesia, che evoca (senza imitare) tutti i grandi sognatori “visionari” del cinema contemporaneo come Tim Burton. Michel Gondry o Terry Gilliam, visto che condivide con loro l’eredità creativa di un certo “manierismo delle forme” miscelato con un accattivante spirito fanciullesco che né il tempo (né l’aggiornamento tecnologico della modernità) riesce ad intaccare o a rendere meno inventivo.

Partendo così un po’ surrealmente da mine antiuomo e pallottole traccianti, l’opera crea e mantiene per tutta la durata della pellicola (un’ora e quaranta circa) e  senza ricorre a efferate  violenze, a oscenità o a eccessi di qualunque tipo, una suspense strampalata e suadente che cattura e incanta. Tutto è  infatti dominato da una pervadente delicatezza, che è indubbiamente il marchio di fabbrica del regista, e della sua idea di cinema. Con una specialissima attenzione verso gli ultimi e i diseredati, il film è  una specie di apologo grottesco e iperrealista, che con una sensibilità anche “citazionista” molto particolare e un po’ eccentrica, racchiude (e fa sue) tutte le illusioni “suggerite” dal cinema americano (e non solo) degli anni quaranta/cinquanta, divertendosi a narrare con aneddoti e  indizi  secondari anche i tic e le manie dei personaggi minori che meglio di ogni altra cosa riescono ad evidenziare il particolare percorso compiuto attraverso il recupero della memoria. Il passato rimpianto da Jeunet è abbastanza indefinito, ma si può principalmente riconoscere e identificare (anche perché rivendicato e ribadito in più di un’occasione) nella passione nostalgica che ha per “quel cinema e quell’epoca” che a suo modo riesuma, e soprattutto per il realismo poetico di Jacques Prévert e Marcel Carné e le fiabe metropolitane ammantate di fatalismo dominate da personaggi emarginati, spesso perdenti, ma anche capaci di improvvise “impennate” che ne cambiano il destino.

Anche questa volta dunque il regista riempie il suo lavoro di echi cinematografici eterogenei e distanti fra loro, permeandone  profondamente il tessuto narrativo, a partire da Il grande sonno di Hawks (letteralmente citato nella sequenza della sparatoria dove Bazil rimane ferito) e passando con deferente discrezione, per tutti gli altri eccellenti nomi già citati sopra. Roberto Chiesi su SegnoCinema si spinge ben più oltre però, includendo nei riferimenti non solo Tex Avery (che un’ attinenza diretta nella pellicola  ce l’ha davvero, proprio per quel che riguarda la progressione del racconto), ma anche il Sergio Leone di Per un pugno di dollari e il suo “ispiratore” originario, Yojimbo di Kurosawa (per la strategia messa in atto ad arte al fine di creare zizzania fra i due potenti nemici contro i quali si battono i nostri eroi) e  di C’era una volta il West (per il tema della vendetta e dell’umiliazione finale inflitta ai cattivi), arrivando a chiamare in causa persino Toy Sory (per la specifica  “specializzazione” di ogni personaggio della banda di rigattieri), e addirittura la serie Mission: Impossibile.

Fiaba complessa e moderna dunque, come già detto, ma tutt’altro che stucchevolmente zuccherosa (non mancano infatti sorprendenti elementi grotteschi nel tracciato, come una collezione di reliquie di dittatori e una sequenza in un peep show) che ben destreggia la sua energia eversiva di “atipico noir” tra le difficoltà della vita quotidiana e la forza salvifica e consolatoria dei sogni. E’ però anche un film sul disorientamento,  il distacco dal reale e lo stupore, oltre che sull’impossibilità di modificare il corso degli eventi e di fermare la scansione del tempo nel suo procedere implacabile e razionale verso l’obiettivo primario di consumare (e gustare) una giusta vendetta: indubbiamente imperfetto e un tantino narcisista, ma appassionato e seducente, persino nelle “osservazioni” marginali, sempre pronto com’è a rendere omaggio ai piccoli piaceri dell’esistenza (come per esempio quando “ci insegna” a mangiare i formaggini La Vache qui rit, senza togliere la carta stagnola che li avvolge).

Con L’esplosivo piano di Bazil il regista mette infatti in scena folli bricolages e intricate macchinazioni senza fine (che è poi il senso del titolo originale, Micmacs à tire-larigot, più o meno traducibile letteralmente come “intrighi rocamboleschi a più non posso”) con il passo leggero di un divertissement un pò stralunato che fa riflettere e pensare.

Il cinema di Jeunet (e questo  in particolare) è spesso invaso da oggetti vecchi, polverosi, dimenticati,  che diventano il veicolo per alludere a storie relegate ai confini del racconto principale, riassunte in fulminee, affettuose divagazioni, ironiche allusioni, e ammiccamenti  un po’ stravaganti dove l’aria che si respira dentro, è impregnata dall’odore pungente dei “materiali di scarto” che cerca di recuperare (è una metafora ovviamente, ma non solo questo) per “riparare” ciò che è rotto e “rivitalizzare” ciò che è morto (o meglio che non è più funzionante) con strepitose sintesi  anche visive che connotano uno stile che, mantenendo attivo il filtro del passato, si ispira  principalmente alla condensazione grafica dei comics.

Forse è per questo che le digressioni del regista hanno la pregnanza nostalgica di un  mondo ancora artigianale, quando ogni oggetto non veniva costruito in serie, ma aveva una sua specifica unicità che diventava “identità e storia”, una visione un tantino idilliaca, mitizzante e un po’ utopica, come può essere quella di un  bambino che con il suo sguardo trasognato trasferisce ogni cosa nella dimensione fantastica della fiaba (e stavolta sono proprio gli oggetti “immaginifici”, il riciclaggio da rigattiere ad occupare il centro della narrazione e a offrire al protagonista e ai suoi stravolti amici infantili e un pò clowneschi, le risorse per contrapporsi al mondo degli adulti - i “cattivi” del racconto - raffigurato nella sua peggiore accezione di cinismo mostruoso e criminale della società, non solo tollerato, ovviamente, ma purtroppo anche legalizzato.

Ma per rendere più chiaro e comprensibile il discorso è forse il caso a questo punto di precisare un po’ meglio almeno cosa accade nella narrazione dei fatti: Bazil, il protagonista (un Dany Boon irresistibile come non mai) ha perso il padre ucciso da una mina quando era ancora piccolo (un avvenimento che ha “segnato” la sua infanzia). Diventato adulto, mentre  nella videoteca dove lavora sta riguardando per l’ennesima volta Il grande sonno, viene colpito da una pallottola che gli si conficca nel cervello e che non può essere rimossa. Perso il lavoro (sarà sostituito da una ragazza che al noir preferisce l’animazione di Tex Avery), l’appartamento dove abita e ogni altra ragione di vita,  la sua esistenza dopo l’incidente, si trasforma in quella di un  sopravvissuto  quasi per miracolo anche un po’ rimbambito che aspira solo a vendicarsi dei produttori guerrafondai che gli hanno arrecato tanti danni. L’uomo incontra così sul suo cammino una banda di emarginati artisti di strada, e con loro progetta un ingegnoso piano contro due fabbricanti d’armi, che metterà l’uno contro l’altro con astuta furbizia, imponendo così al mondo proprio la legge di un “debole” (perdente) sognatore e cinefilo che sarà poi quella che  gli permetterà  di ottenere alla fine la rivincita sperata (nel suo personaggio di falso idiota, riecheggia  con magnifica evidenza come si può ben vedere,  il candore disarmante ma determinato del grande Bourvil che nel cinema francese ha lasciato il segno).

E’ dunque in sintesi quasi una variante aggiornata ai nostri tempi della fiaba di Pollicino di Perrault (anch’essa molto amata de Jeunet) che  poi narra le gesta del piccolo indifeso, sprovveduto e puro, che affronta l’orco spietato. E qui gli orchi sono due potentissimi manager della produzione e del commercio delle armi (i “venditori di morte”, come si è già detto) che, nella semplificazione allegorica, assommano sulle loro spalle tutto il male,  la prepotenza e l’ingiustizia della globalizzazione, definibile nella  terrificante violenza neocapitalista in guanti bianchi che è la gramigna infestante della nostra contemporaneità, corrispondenti ai nomi di Thibault de Fenouillet , amico di Sarkozy e collezionista di feticci organici, e di François Marconi, un “feroce” industriale della guerra con lussuoso appartamento super moderno e strampalate velleità culturali che riversa sul figlioletto inerme (danno loro corpo e vita rispettivamente André Dussolier, perfettamente  a suo agio nelle mezze tinte come nel grottesco, e un inquietante Nicolas Marie).

A questi due veri e propri “mostri”, Jeunet – come ho già precisato sopra  - contrappone proprio la controcultura del riciclaggio dell’usato (che non è solo un eufemismo), incarnata da una pittoresca galleria di sopravvissuti, essi stessi relitti provenienti da precedenti fallimenti personali e  romanzesche vicissitudini drammatiche, perfette “citazioni” viventi di un “immaginario” di riferimento molto preciso (a cominciare dai personaggi dei fumetti di La bande des Pieds Nickelés), popolato di contor­sionisti, uomini cannone, dat­tilografi che parlano per proverbi, e muti scultori di automi (per inciso, le magnifiche sculture meccaniche sono realizzate dall’artista francese Gilbert Peyre), tutti trattati con un’ironia e  un affetto davvero contagiosi, in un esilarante tripudio di trovate e di creazioni, come quella che mette al centro il poeta Petit Pierre, mago gentile della gang, che fabbrica un topo burattino che gira su se stesso, un carillon inutile, ma un piccolo gioiello d’invenzione, non funzionale, ma piacevolmente funzionante.

Rigatteria in gran spolvero dunque, dove melodramma, complotto e disavventure a cascata si mescolano e si attorcigliano fra loro sullo sfondo di una Parigi magicamente fiabesca, ideale per azionare e rendere credibile una macchina drammatica che contrappone uomini potenti ricchi e cattivi a una corte dei miracoli di cospiratori sciancati ma coraggiosi, capaci di diventare “giustizieri”.

Per ciò che riguarda lo stile, il regista de Il favoloso mondo di Amélie  resta fedele anche qui al suo particolare modo di intervenire sulla forma e sulle convenzioni a partire dalle  immagini (che modifica digitalmente con colori e altri trucchi operando praticamente su ogni fotogramma), con una visione estetizzante e lirica della povertà e dell’emarginazione che ha il gusto delle caratterizzazioni un po’ caricaturali ma gradevolmente pertinenti e mai eccessive (ben sviluppate da un “ispirato” gruppo di attori tutti perfetti nei loro ruoli), perchè le esplosioni e le esasperazioni, hanno qui un carattere e un gusto anarchico e liberatorio che le affrancano dal rischio della convenzione.

Ripreso con vorticosi movimenti della cinepresa che gira e si impenna, il film ha anche un ulteriore valore aggiunto nei dialoghi (dai quali affiorano a sua volta gustosi reperti “recuperati dal cestino”, o per meglio intendersi, termini ormai desueti che originano gag e giochi di parole di straordinaria forza inventiva, ideati con la collaborazione di Guillaume Laurent, suo sceneggiatore di fiducia). 

Su una base di fondo un po’ virata a seppia,  la luce e i cromatismi sono poi quelli caldi e rétro cari al regista che una certa critica francese trova adesso un po’ esosi e non gli perdona più, sottovalutando però  così  per un eccesso espanso di snobismo tipico di quella cultura, anche le sue indiscutibili doti  di artista visionario che restano elevate e certe e che dovrebbero essere invece “esaltate”. Le musiche di Raphaël Beau, sono anch’esse e con intelligenza, tutte “volte al passato”, gradevoli e composite, nel senso che accanto a originalissime creazioni, citano volutamente, e riprendono quelle “d’epoca”  con un particolare riferimento  a  Max Steiner, davvero ideale per far “calare” il tutto nel giusto clima scelto dal regista.

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