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La banda del brasiliano

Regia di Patrizio Gioffredi vedi scheda film

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La recensione su La banda del brasiliano

di PompiereFI
8 stelle

Vaiano, comune in provincia di Prato. Paese di diecimila anime che ha dato i natali a Fiorenzo Magni, uno dei pochi ciclisti in grado di rivaleggiare con Coppi e Bartali. Un “vecchio” come non ce ne stanno più, esponente di una generazione che qualcuno considera ancora sana e di imbattibile caratura morale.

 

La pensano così gli autori de “La banda del brasiliano”, film che ricorda da subito i classici poliziotteschi degli anni ’70, dato il poster in bella vista di “Roma violenta” con Maurizio Merli, e quelli di altri film di Castellari, Fulci, Lenzi. Grazie ai movimenti nervosi della macchina a mano e alle gradevolissime musiche originali con tanto uso di basso, chitarra elettrica, sax e tromba, votate spesso a ritmi sincopati, i volti da “kriminali”, rappresentanti di una generazione allo sbando senza riferimenti economici stabili, danno un senso al valore culturale in cui avevano creduto quando erano giovani, quando correvano con i go-kart, si baloccavano con i filmini super 8 e tiravano tardi al night.

 

Una progenie arrabbiata assai, che perde il lavoro anche se laureata, che non ha locali dove potersi divertire, non è ascoltata dai familiari nelle loro piccole grandi ambizioni. E’ questo il leit-motiv principale dell’intera pellicola che, partendo appunto dalla provincia, arriva fatalmente ad abbracciare un interesse di livello nazionale. Ha le idee chiare su come la politica si sia ripercossa sull’Italia attuale (pensioni basse, soldi rubati), anche se le pretese non sono quelle di contestare la condizione della collettività in maniera luttuosa, tutt’altro. Viene privilegiata la tragicomicità.

Singolari in tal senso l’improbabile confronto all’americana tra sospetti arrangiati e raccattati a caso (c’è perfino un sordomuto), la bottiglia di J&B sempre sul tavolo a calmare gli animi, e il tratto girato in FI-PI-LI che ci ricorda il tentativo di fuga in autostrada di Gastone Moschin in “Milano calibro 9”.

 

Carlo Monni recita con gli occhi nascosti dai Ray-Ban e, dalla stanza anonima di un hotel, da vita alla figura un po’ malmessa dell’ispettore Brozzi, un uomo che forse ha passato troppo tempo da solo e adesso non sa più cosa pretendere dalla vita. Di altro spessore è il questore: una colorita controfigura di Vittorio Feltri che si prodiga in un pistolotto contro i giovani d’oggi considerati arroganti e viziati, riducendo immancabilmente il tutto a una questione su chi abbia più “palle”.

 

Le inflessioni dialettali inevitabili rendono l’atmosfera casereccia al punto giusto, semmai è il tono con il quale vengono pronunciate le battute ad assumere lineamenti troppo dilettanteschi; si fa inoltre un abuso esagerato di parole come “cazzo” o “stronzo”. Per fortuna c’è chi parla poco e preferisce comporre cruciverba o giocare al solitario.

La regia è multiforme (nel film c’è anche l’uso di un carrello) e lucida, il montaggio sfavillante, e una dolce malinconia è garantita dalla “FINE” gigantesca scritta sullo schermo a suggellare, come non si usa più, il termine della vicenda. Da qualche parte il cinema italiano doveva pur abitare, seppure povero di mezzi e di soldi (pare che abbiano realizzato il tutto con 2 mila euro, 3 stipendi di oggi). Correte a recuperarlo in DVD oppure, se avete il vantaggio di abitare in toscana, aspettate un’altra proiezione “clandestina”.

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