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Quella sera dorata

Regia di James Ivory vedi scheda film

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La recensione su Quella sera dorata

di spopola
6 stelle

Tutto quello che era non è più; tutto quello che sarà non è ancora. (Alfred de Musset)

 

Prima produzione realizzata senza il compagno di una vita, Ismail Merchant, Quella sera dorata, pur rimanendo distante dai risultati raggiunti da Ivory nel fulgido periodo della sua massima ispirazione artistica, possiamo dire che è una pellicola che riscatta almeno in parte  le sue precedenti ultime prove che sembravano aver quasi annullato il suo talento di una volta, quella preziosa capacità che possedeva di appassionare, raccontando in immagini storie e sentimenti con uno stile  un po’algido ma di forte impatto emotivo, personale e appropriato anche sotto il profilo della forma. Un film per molti versi non completamente calibrato, ma di quelli che possono benissimo riuscire anche a “prenderti l’anima”, per dirla con Faenza (il clima generale è  quello un po’ desueto del  mèlo d’antan), con quella spasmodica, quasi ostentata ricerca di un amore più appagante e di un’esistenza migliore a cui tutti in fondo aspiriamo, che ci fa immaginare dietro a un progetto di siffatto tenore, un uomo certamente in un momento critico della sua vita, ma dichiaratamente deciso a superarlo, e nel quale forse ho persino riconosciuto un qualcosa di strettamente connesso con la mia personale esperienza privata, che mi ha fatto davvero “palpitare” in più di un tratto, nonostante tutte le incertezze e le approssimazioni che faticano a far coagulare la materia e che minano pesantemente il risultato complessivo del lavoro di un regista che – come ho già accennato sopra -  in altri tempi aveva saputo molto meglio fare i conti con la vita e i sentimenti, regalandoci ben più profonde sensazioni.

L’esito è indubbiamente discontinuo (e questo è inoppugnabile), ma di quelli che meritano comunque una ponderata attenzione, e quindi in ogni caso tutt’altro che liquidabile con sufficienza e leggerezza come invece è stato fatto dai più.

Tratto dal romanzo di Peter Cameron, è infatti un film di atmosfere raffinate (come del resto il libro a cui si ispira) dove è ancora una volta la “memoria”, il ricordo, a dominare uno scenario popolato da una folta galleria di figure complesse e lacerate anche sotto il profilo psicologico oltre che umano, che costituiscono il vero “cuore” pulsante di una storia nella quale la particolare evidenza riservata alla brillantezza dei dialoghi e al “formalismo” esasperato e patinato delle immagini (vero e proprio marchio di fabbrica del regista), non occulta né annacqua la sottesa malinconia derivante da un’assenza, o meglio ancora, la “nostalgia” (perché proprio di questo si  tratta) per ciò che si è perduto, che diventa evidente e sofferta  mancanza (o “privazione”) che determina  un vuoto  difficilmente colmabile. Commuove dunque soprattutto per il suo essere riuscito a raccontare la maturazione di un lutto (si avverte in sottotraccia  l’autobiografica adesione dell’autore a un percorso che è quasi un tentativo di rinascita privata).

L’atmosfera – che ha una forza evocativa davvero straordinaria -  è ancora una volta (come in quasi tutto il cinema di Ivory, del resto) fortemente letteraria: da un lato c’è Jules Gund, l’autore morto suicida di un romanzo così importante da aver contribuito da solo a cambiare la storia della letteratura, e dall’altro invece, la figura emblematica di un ricercatore proveniente da “un’altra terra”, totalmente estraneo al contesto, che anelerebbe scrivere la biografia di questo grande ed enigmatico romanziere. In mezzo a tutto questo, c’è  però anche ciò che resta della problematica famiglia dello scrittore (un nucleo di persone che dell’uomo – più che dell’artista –  tende comunque a raccontare e a mantenere a galla solamente piccoli frammenti - quasi sempre menzogne - di un passato e di una vita che per il resto si vorrebbe lasciare immersa nella mitologia elegiaca della celebrazione, piuttosto che riportarla alla effettiva consistenza di un’esistenza reale, sia pure zeppa di contraddizioni), e soprattutto l’ingombrante eredità di un manoscritto mai terminato dall’autore, in cui lo scomparso ha narrato – beffardamente - la sua personale versione  delle cose, mettendo le “sue verità” nero su bianco.

La nostalgia e la malinconia sono invero sensazioni persino un  po’ in antitesi con ciò che sembrerebbe voler indicare lo stucchevole e “poeticamente decorativo” titolo italiano (ancora una volta decisamente poco indovinato, devo dire), ed è allora molto meglio ripartire invece da quello originale, The City of Your Final Desination, molto più esplicativo e vicino allo spirito di una pellicola in cui il nodo tematico principale è semmai quello di cercare di ritrovare il senso della vita per poi provare a viverla realmente e concretamente nel presente da protagonisti, anziché rivisitarla  passivamente attraverso il ricordo e il rimpianto di ciò che è perduto e che non potrà più tornare.

Teatro dell’avventura e del “viaggio” (è una trama ambientata in luoghi geograficamente molto distanti da quelli abitualmente raccontati dal cinema del regista) è la fatiscente  tenuta “Ocho Rios” in Sudamerica, una sorta di “isola che non c’è”  (Luisa Serqua), vero e  proprio rifugio-prigione per la famiglia Gund, sperduto nel nulla della pampa uruguayana.

Nel vorticoso carosello di espatriati, rifugiati, déracinés in fuga da sé stessi del volume di Cameron, il protagonista (come del resto nel film), ha origini iraniane ma vive negli Usa, ed è da lì che proviene. La prima moglie di Gund, al contrario, è francese, ma ha abitato da giovane a New York, mentre Arden, la giovane amante, inglese di nascita, si è trasferita in America latina soltanto per amore, e lì è rimasta per condividere un lutto. Adam infine (il fratello di Jules) sarebbe in potenza un dandy senza patria, vero e proprio cittadino del mondo. Ha infatti incontrato il proprio compagno in estremo oriente  e si ritrova ora imprigionato insieme a lui nella grande dimora coloniale ereditata dai genitori  non per scelta, ma per necessità oggettiva, spesso ospite di una folcloristica trattoria italiana aperta ai confini del mondo (The City of Your Final Destination, appunto). Si è quindi di fronte a una specie di atlante geografico che contiene in nuce quasi tutto il mondo che è stato esplorato dal cinema cosmopolita del regista,   quindi in potenza, davanti a un’opera che meglio di ogni altra avrebbe potuto aspirare a diventare la summa  di una carriera assai longeva, il suo punto di approdo definitivo, o addirittura  un specie di “lascito testamentario”, se solo ci fosse stata una tenuta maggiore nei tempi e nei ritmi del narrato che tendono invece sorprendentemente a sgretolarsi facendone – al contrario – un’opera decisamente minore e a tratti claudicante.

Comunque l’inedito Sudamerica del film si presenta  più nelle forme di un paesaggio dell’anima  che come un luogo geografico caratterizzato da inconfutabili elementi spaziali e geografici (Sono in Uruguay, ma potrei essere ovunque, confessa  a un certo punto proprio Omar), un “altrove” in cui sono sepolte le estreme reliquie di un’assenza, che si estrinseca proprio attraverso l’ondivago fluttuare narrativo di una storia che Ivory  (se si escludono prologo ed epilogo) rinserra dentro le mura anguste e un po’ claustrofobiche di quell’ampia proprietà terriera. Pur essendo lontani in termini di distanze chilometriche (e non solo) proprio dall’America e dall’Europa più raffinate e colte tanto care a Ivory (ma anche dal fascino ammaliante dell’India coloniale), si resta comunque anche qui ugualmente e indissolubilmente connessi in un unicum inscindibile con la  poetica  più genuina e sentita dello straordinario percorso artistico e tematico del regista, e questo grazie a una specie di cordone ombelicale, una volta di più costruito sulle parole e sulle paure, pervaso da una inesauribile malinconia nostalgica, che rimane l’elemento di maggiore riconoscibilità dell’intera sua opera.

Siamo dunque ancora una vota dentro a una storia di formazione e di maturazione che è anche a suo modo lo specchio di una generazione alla ricerca della propria identità, desiderosa di rompere l’inerzia  e di ritrovare almeno in parte il coraggio di tornare ad essere protagonista, dalla quale emerge la figura un po’ irriverente di un emblematico personaggio come l’aspirante biografo che lentamente scopre – fino ad acquisirne la certezza  assoluta - che prima della scrittura (che magari sublima ogni cosa) c’è sempre (o almeno dovrebbe esserci) la vita  vissuta, ed è proprio a quella che è preferibile fare riferimento.

 

Omar Razaghi (interpretato da Omar Metwalley), è lo smarrito dottorando americano figlio di esuli iraniani, che per uscire dalla passiva inoperosità esistenziale in cui stava sprofondando, ha deciso di partire per l’Uruguay dove spera di riuscire a convincere i reticenti eredi Gund a concedergli la liberatoria  per la stesura della biografia del grande scrittore Jules Gund, morto suicida, che il tempo e l’indolenza rischierebbero di far dimenticare ai più. Un percorso dunque di introspezione e di conoscenza il suo, che alla fine vedrà il giovane tornare a casa senza aver proprio centrato l’obiettivo, ma avendo per lo meno “scritto” (o riscritto, forse sarebbe più appropriato dire) la storia della propria vita, e gettato di conseguenza anche le basi di un possibile futuro. In questa realtà quasi fuori dal tempo, Omar incontra infatti un surreale quartetto di personaggi dallo sguardo esclusivamente rivolto al passato, bloccato in un fermo immagine inamovibile, che sembra voler rimanere statico e immutato all’infinito, ma che paradossalmente, e proprio a causa della sua passività, finirà per aiutare il giovane, fornendogli lo stimolo indispensabile a trovare il modo per uscire dal guscio e a cercare la propria strada.

Il tempo da queste parti non è un bene prezioso afferma Caroline, la glaciale vedova dello scrittore scomparso, ed è proprio cercando di tener bloccato quel fluire ininterrotto dei  giorni e elle ore –l’unico “movimento” in grado di produrre trasformazioni certe - che la vita dei Gund è rimasta negligente e  rallentata, ibernata in una sorta di isolamento autarchico che gira su sé stesso, fra pittura, orticultura, apicoltura e altre piccole divagazioni di poco conto.

Dopo lo sconcerto iniziale, sarà proprio grazie all’aiuto di Adam, il fratello gay del defunto scrittore, che Omar comincerà a rispecchiarsi (e a ritrovare sé stesso) nella superficie stagnante di quel microcosmo fuori dal mondo e dalla realtà, metafora di una società sospesa nel vuoto (anche di senso), fatta di una (dis)umanità raggelata  che si affanna  ad esorcizzare la morte semplicemente volgendo lo sguardo da un’altra parte, e per questo risulta perdente già in partenza.

Intelligente e brillante, pieno di dialoghi arguti e momenti coinvolgenti sul piano intellettuale ed emotivo, il film trova  però i suoi momenti migliori e più alti grazie alle irreprensibili interpretazioni  di un cast eterogeneo e variegato come le etnie raccontate, complessivamente formidabile e affiatato, che affianca al già citato Metwalley un raffinato (e come al solito magmatico) Anthony Hopkins (per la quarta volta con Ivory) che dona spessore ad Adam, il fratello omosessuale di Jules. Charlotte Gainsbourg è invece Arden, l’amante un po’ bambina dello scrittore defunto che continua a convive con la sua vedova  che dipinge solo “copie d’autore” (la  cupa Caroline dell’intensa Laura Linney). Hiroyuki Sanada, infine, è il sensuale e vitale apicoltore compagno di vita di Adam. Un variopinto parterre multietnico insomma che contribuisce a chiarire il messaggio di una pellicola in cui è proprio la “diversità” ad essere  centrale e a diventare persino la principale ricchezza dell’ipotetica biografia in pectore di un uomo che non è più, e che qualcun altro vorrebbe far sua, una vita però che potrebbe essere ricostruita soltanto attraverso le parole, le delusioni, le mezze verità e la nostalgia degli spettrali superstiti che preferiscono continuare ad arrancare nel nulla, cullati dall’illusione di aver fermato il tempo, dal quale invece sono soltanto rimasti fuori sincrono, negando e cancellando tutto ciò che di sgradito porta con sé il ricordo e la memoria.

Nostalgia e malinconia, dunque,  qui rappresentate e rese palesi, da una gondola in secco sulle rive di una palude al centro di una landa perduta ai confini del nulla dove il mare non è mai arrivato:  è la potente metafora che Ivory ci offre proprio attraverso quell’antico souvenir del viaggio di nozze veneziano fatto dagli stravaganti genitori Gund,  portato in dono ai futuri abitanti della tenuta di Ocho Rios  e che non a caso, è diventato anche il titolo di  quell’unico romanzo che ha reso celebre Jules, “La Gondola” appunto, una pesante presenza simbolica che può ben materializzare in immagini ciò che Freud definisce l’ombra dell’oggetto che cade sull’io (…) lasciandolo impoverito e svuotato, qui trasformata proprio in una specie di simulacro che rinchiude e conserva la triste eredità di un gruppo di superstiti fuggiti dall’Europa ai tempi del nazismo per erigere laggiù il loro privato “monumento funebre” (una specie di cenotafio)  attorno al quale vorrebbero tutti poter continuare ad orbitare come in un moto perpetuo, anziché provare a vivere davvero.

Come si può ben vedere dunque, un film forse irrisolto, ma molto complesso e intrigante, e soprattutto un’opera  che a differenza di quelle che sono venute immediatamente  prima nella traballante carriera involutiva di un regista una volta quasi di culto, basa gran parte del suo fascino e della sua forza espressiva, su una inesplicabile, ritrovata joie de vivre,  magari infarcita di dolore e sopita nel risentimento che ciascuno (l’amante abbandonata, la moglie tradita, il fratello lasciato solo di fronte a scelte esistenziali in apparenza soffocanti) prova nei confronti di un uomo che ha scelto il suicidio, e che alla fine si trasforma in una vera e propria storia d’amore e di rinascita  che racconta la scoperta  di una verità semplice ed esenziale: continuare a vivere non significa solo sopravvivere al proprio passato, ma sapere di avere un buon motivo per farlo  (Marco Spagnoli) e dove è proprio l’incontro tra Omar e i Gund  a fare da catalizzatore e a trasformarsi in un gioco di rifrazioni incrociate che si integrano fra loro.

***½

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