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L'ombra del nemico

Regia di Ole Christian Madsen vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su L'ombra del nemico

di Marcello del Campo
4 stelle

 

 

 

 

I compagni della resistenza antinazista li chiamano Flammen e Citronen: sono i due inseparabili amici che nella Danimarca occupata seminano una scia di sangue (marcio, dei crucchi) lungo la loro strada. Flammen, il più giovane (Thure Lindthart) ha solo ventitre anni, è entrato nella clandestinità dopo la morte della sua compagna ebrea, torturata e uccisa in Germania. Citronen è più maturo, meno nevrotico, ma non ha esitato a lasciare la moglie e la figlioletta per combattere i nazisti occupanti. Due amici per la pelle, dunque, disposti a fare i killer pur di liberare il paese dell’ingombrante presenza del nemico.

Patria… Patria’ è il loro slogan e per la ‘Patria’ è necessario fare i manovali del crimine. Flammen è il più convinto tra i due, è motivato, spietato, raramente si chiede interrogativi esistenziali, va dritto al bersaglio e colpisce, preferibilmente alla testa. Citronen (Mads Mikkelsen), al contrario, pure avendo un aspetto carbonaro, barba ispida, sciarpa scura, cappello a tesa bassa, occhialini da intellettuale, è l’uomo macerato dal dubbio (che è di casa, il dubbio, in Danimarca!), infatti, per tutto il primo tempo del lungo film (123 minuti), si limita a fare da palo alle escursioni omicide di Flammen.

Non vorrei fare dell’ironia su due eroi della Resistenza Partigiana in Danimarca, ma Ole Christian Madsen (il regista) invita a una sparatoria fuori tempo massimo: è vero, il cinema danese non è mai stato impegnato se non con la teologia e gli aut aut kierkgaardiani (Dreyer), chiuso nell’universo cui ha chiesto risposte, sigillato nelle dottrine impervie, va bene, quindi, che un giovane regista eriga un monumento ai giovani eroi, soprattutto quando l’inclito Von Trier si arrabatta a seguire pedestremente le orme del maestro Dreyer (tradendone e sputtanandone la grandezza), ma girare un film resistenziale, prendendo a modello Butch Cassidy fuorvia dall’esegesi realistica alla quale ci hanno abituato registi come Rossellini, Pontecorvo, Melville, Wajda. Se proprio si vuole trovare un’analogia, si può tirare in ballo un certo cinema spettacolar-resistenziale in voga negli anni Settanta, non so, Sacco e Vanzetti di Montaldo (più spettacolo meno politica) o Tiro al piccione dello stesso gagliardo regista. Oppure, stando all’attualità del fare cinema, al pessimo servizio reso da un revisionista come Verhoeven con Black Book nel quale, con una catapulta difficoltà 9,7, i tedeschi diventano i buoni e i partigiani dei miserabili assassini. Ancora, si potrebbero trovare altre affinità con la fabula imbecille del Labirinto del fauno del fantasioso Guillermo del Toro o mitologizzare la Resistenza e poi travasarla in Hellboy

E dire che questo ‘revisionismo’ trova il plauso della critica che si spellerebbe le mani se i distributori decidessero di importare Flammen & Citronen, un must della svolta in chiave western o noir o melodramma (a voi la scelta) delle tragiche vicende dell’occupazione nazista.

Si dirà che Aldrich ha compiuto lo stesso salto mortale? Ma no!, Aldrich non era uomo di mitologie santificanti, Robert dirigeva uomini allo sbando, allocava sporche dozzine di infrequentabili individui dentro spazi bellici e faceva vedere come erano fatti di sangue e coraggio quegli inarrivabili corpi-macchine-da-guerra. 

Ma stiamo allo ‘spettacolo’ di Flammen & Citronen, seguiamo le vicende degli eroi, pediniamo Flammen (la sua capigliatura rossa spicca nella folla), accompagnamolo a casa di Herr Hoffmann (Christian Berkel), il capo della Gestapo: Flammen esita, Hoffmann lo tiene in pugno, gli dice che chi entra a far parte della Resistenza lo fa per tre motivi, idealismo, nevrosi, odio: Flammen ascolta l’uomo che dovrebbe eliminare, ne è come incantato, lo risparmia, infine. Immaginate ora che al posto di Flammen ci sia Billy Hopkins: riderebbe in faccia all’uomo della Gestapo e gli sparerebbe un colpo al centro della fronte.

Perché la Resistenza non si fa ingannare dall’eloquenza dei carnefici. 

Seguiamo Flammen: ha saputo che Bodil la pasionaria (la bellissima Mille Lehfeldt) ha tradito i compagni, di otto di loro ha fatto i nomi, la donna lo irretisce in un amplesso che il giovanotto si sogna. Pensate ora all’Armata degli eroi di Jean-Pierre Melville o alla Battaglia di Algeri di Pontecorvo, e ditemi, giacché ci siamo, che ne pensate di Inglorious Basterds.

D’accordo, lasciamo fare la resistenza a chi sa maneggiare le armi.

 

 

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