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Vincere

Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film

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La recensione su Vincere

di nickoftime
10 stelle

Marco Bellocchio è un regista che potrebbe fare a meno del sonoro: creatore di immagini che parlano da sole, si è addentrato negli argomenti più oscuri della nostra storia recente (dalle contraddizioni della famiglia borghese a quella delle istituzioni religiose fino agli anni di piombo) scompaginando gli schemi di un dibattito ormai stantio, per affrontarlo con una prospettiva che tiene conto della Storia ma privilegia la sfera individuale e psicologica delle parti in causa. Le sue storie finiscono per diventare sedute psicanalitiche in cui il flusso di pensiero dei personaggi, ondivago e sempre sul punto di degenerare in qualcos’altro si mischia con la domanda di un mercato cinematografico dopato di didascalismo e normalizzazione (“Angeli e Demoni” rappresenta l’esempio più calzante). Un dovere a cui il cinema di Bellocchio si adegua con una certa scontrosità e che si traduce in termini di linguaggio con un vocabolario che ottimizza al massimo il significato delle parole, sfiorando spesso l’incomunicabilità ed il silenzio. Così accade anche ad Ida e Benito messi alle strette dalla telecamera che indugia sui loro volti, interrogandoli: Bellocchio gli sottrae lo spazio circostante e li obbliga all’interno dell’inquadratura quasi volesse ritrovare negli spasmi del volto o nel guizzo di un occhiata i segni di una verità altrimenti indicibile. Due animali in gabbia che reagiscono con la schizofrenia di certi eroi del cinema muto (una cifra stilistica presente non solo nell’evidenza della citazione di “Giovanna D’arco” di Dreyer ma anche nella sovrapposizione iconografica tra la figura di Ida e quella della pulzella D’Orleans interpretata da Renè Falconetti) eternamente divisi tra una mobilità appena accennata ed improvvise esplosioni di furore. Un testa a testa che monopolizza la prima parte del film, quella in cui conosciamo gli aspetti privati di una vicenda che sarebbe diventata cronaca e che ci restituisce il malessere di un umanità che si ribella ad un destino già scritto (lei proprietaria di un Atelier di moda , lui un oscuro maestro della provincia romagnola) ed impazzisce nel tentativo di riscriverlo secondo i propri sogni (lei convinta di aver trovato in lui l’uomo della vita, lui desideroso di rinverdire il mito dei grandi condottieri italici). Qui Bellocchio lascia spazio agli slanci dei suoi protagonisti che si consumano alla vigilia del grande evento bellico: gli scenari, notturni o prevalentemente in penombra, le immagini che si fanno sfocate confondendo le sagome o mettendole su piani diversi di realtà (gli amplessi amorosi potrebbero anche essere il frutto di incontri immaginati e mai consumati) , un uso diacronico del tempo che sottrae allo spettatore alcuni snodi fondamentali (uno su tutti il matrimonio dei due celebrato in chiesa e successivamente la nascita di un figlio, così come la relazione tra Benito e Rachele che sembrerebbe avvenire parallelamente a quella con Ida, e che poi ritroviamo, nella seconda parte sposati all’insaputa della Dasler) rendono evidente la precarietà di quella relazione e soprattutto la prospettiva personale con cui viene storia raccontata quella storia. Poi dopo lo scoppio della guerra che Bellocchio annuncia nella scena che ricorda la corazzata Potemkin, con Ida che sorge dal fumo di un esplosione più metaforica che reale, e procede con incedere deciso, la carrozzina tra le mani e lo sguardo fisso di chi sa cosa vuole ed è deciso ad ottenerlo, il film ha uno scarto e la vicenda pur rimanendo ancorata alla dimensione interiore della sua sfortunata eroina si confronta con le verità che la storia ci ha tramandato: La richiesta di verità di Ida Dasler che rivendica il ruolo di moglie di Benito e madre del di lui figlio si scontra con la storia ufficiale e le sue istituzioni. Benito che nel frattempo è diventato Duce e la guerra dichiarata tra il consenso generale (le immagini di repertorio non lasciano dubbi sul seguito che accompagnò la decisione del gerarca fascista) vi appaiono attraverso il bianco e nero dell’Istituto Luce per dar vita ad un gioco di specchi in cui i diversi piani della realtà diegetica si confrontano (Ida mantiene il rapporto con l’amante che la rifiuta attraverso i cinegiornali proiettati al cinema), si sovrappongono (la scena in cui la figura di Ida si fonde con quella del Duce proiettato sullo schermo della sala) e si confondono in un caleidoscopio in cui la dimensione del reale, quello in cui vive Ida, diventa fiction e quella mediatica, filtrata attraverso i dettami del regime e offerta allo spettatore attraverso il collage documentaristico diventa vera. Isolata dagli affetti familiari (il figlio le verrà tolto ed affidato ad un istituto religioso), rifiutata dal proprio amante e rinchiusa in manicomio per continuare ad affermare la verità di un matrimonio consumato (anche se ancor oggi nessuno ha le prove definitive che ciò sia veramente accaduto) Ida diventa la coscienza di un mondo che non ne ha e si avvia verso un inevitabile sfacelo. Formidabile direttore di attori (di fronte alla sua telecamera persino il vero Benito Mussolini sembra andare oltre la maschera a cui siamo stati abituati), eccellente regista dal punto di vista visuale (semiologi e studiosi potrebbero sbizzarrirsi nella sua decostruzione) Bellocchio realizza un film che è figlio del suo tempo producendo un Kolossal che ha i costi di un film d’essai senza per questo venire meno alla meraviglia ed all’epicità del genere. Un gioiello che magari non aggiunge niente sul piano della conoscenza dei fatti storici ma li reinterpreta in maniera originale ed alla luce di una personalità che non scende a compromessi.

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