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Pedro

Regia di Nick Oceano vedi scheda film

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La recensione su Pedro

di spopola
8 stelle

Il Florence Queer Festival 2009 in programmazione in questi giorni presso il Cinema Odeon di Firenze (si è giusto concluso ieri 3 dicembre con la proiezione in notturna de Il compleanno di Marco Filiberti), mi ha dato l'opportunità, nella ricorrenza programmatica del 1° dicembre, data interamente dedicata a filmati (e tavole rotonde) concentrati intorno alle problematiche relative al "flagello Aids", di acquisire la visione in sala (altrimenti per me di difficile fruibilità) di questo interessante docu-fiction firmato, per quanto riguarda la regia, da Nick Oceano, qui al suo primo lungometraggio.
Passato nella sezione Panorama dalla Berlinale di quest'anno oltre che dal Toronto Film Festival del 2008, il film  è la ricostruzione "realistica" di una storia vera (fatta un pò alla maniera di Milk, senza le impennate liriche della regia di Van Sant però, e quindi con un appiattimento formale più vicino a un prodotto para- televisivo, ma con un andamento tutto sommato altrettanto empatico che, unito alla inusuale e  non scontata capacità che ha nel mettere a fuoco con aderente precisione la psicologia dei personaggi e il contesto sociale di riferimento, lo eleva  decisamente ben sopra la media di questo tipo di produzioni). 
Un altro robusto biopic dunque di fortissimo impatto politico e sociale, che racconta la vita (e la morte) di Pedro Zamora, un ragazzo cubano-americano sieropositivo (lo scoprirà casualmente all'età di 17 anni), che  ebbe il coraggio e la determinazione di esporsi in prima persona nel raccontarsi pubblicamente, in tempi in cui - specialmente in America - la malattia era ancora considerata un "emarginato" e emarginabile tabù di spaventose e inenarrabili proporzioni di portata quasi biblica (una specie di punizione divina, ancora e sempre dalle parti di Sodoma e Gomorra, o giù di lì), che riguardava esclusivamente “minoranze” deviate “che se l’erano cercata” o peggio ancora, “meritata”.
Il suo impegno  in prima persona e in anticipo su ciò che farà poi davvero il governo, lo vide impegnato in una capillare opera di  “divulgazione” finalizzata alla prevenzione,  indirizzata soprattutto verso i giovani, che segnò l’inizio del suo appassionato attivismo (che non lo abbandonerà più fino alla fine, facendo proseliti), una propedeutica opera di sensibilizzazione per tentare di arginare l’espansione esponenziale del virus, con suggerimenti mirati in direzione dello screening di massa, non ancora così scontato, ed estrinsecata  attraverso una  energica (e non semplicissima) opera  di "sdrammatizzante" finalizzata a  spazzare via molti degli stereotipi  che si erano creati intorno, più che alla malattia, a coloro che ne erano entrati in contatto e se la portavano addosso, trattati come i “riconoscibili” pericolosi untori di questa nuova pestilenza (modalità del contagio, aspetto fisico degli “infetti”, categoria di appartenenza, diffusione “trasversale” del contagio, rischi da evitare e pratiche non definibili pericolose, etc. etc.)
In tutto questo, la salvaguardia della propria integrità (e quindi l’inevitabile uso del preservativo come efficace barriera di difesa, presentato con dissacrante creatività di pensiero) era il necessario punto focale da far emergere con prepotenza, per arrivare all’ambizioso traguardo di una “consapevole conoscenza” anche meno discriminante, obiettivo  che  – se si guardano in prospettiva i risultati - il ragazzo riuscì ad onorare come meglio non sarebbe stato possibile fare.
Pedro infatti, nel 1994, quando ancora non era stato messo a punto il cocktail di farmaci "salvavita" - e quindi con una condanna a morte “a breve scadenza” già decretata sulle sue spalle e molta disinformazione generalizzata - partecipò, come gay dichiarato portatore della sindrome di immunodeficienza acquisita già in fase di manifesto Aids conclamato, al programma di MTV The Real World: San Francisco (una specie di Grande Fratello solo un tantino più umanizzato) diventandone di conseguenza il testimonial diretto (e serenamente cosciente) che esponeva con chiarezza  per la prima volta in televisione di fronte a un pubblico così cospicuo, la portata reale del problema (e quindi "costringendo” i milioni di telespettatori che seguivano quel fortunato programma “a farci i conti” e a prendere coscienza,  contribuendo così in modo esplicito a una maggiore familiarizzazione che andava oltre la "demonizzazione" discriminatoria da lazzaretto punitivo, che era stato fino a quel momento il punto di vista privilegiato delle masse).
Il Presidente Bill Clinton, in quegli anni al timone della nazione (che è anche diretto sponsor della pellicola) attribuì a Zamora proprio il merito di avere umanizzato nell'opinione pubblica americana il senso di  questa temuta (e temibile) patologia. Il suo essere uno dei protagonisti di punta dello show infatti, fece acquisire a Pedro  una notevole popolarità mediatica convogliando intorno al suo caso la simpatia della gente, che si trasformò lentamente in “condivisione”.
Una storia esibita senza falsi pudori e dubbi moralismi, insomma, che appassionò l’intera nazione (soprattutto i giovani), così intensamente, che quando le sue condizioni di salute peggiorarono ed entrò praticamente nella devastante fase terminale dell’inarrestabile processo clinico, tutte le prime pagine della stampa nazionale continuarono a parlarne con ampi articoli e a seguire  la sua vicenda che non era ormai solo “privata” fino alla sua morte, avvenuta a fine ’94,  quando aveva solo 22 anni , un fatto che provocò sentite manifestazioni di dolore non solo in America, ma anche in altre parti del mondo.
Il racconto è tutto qui, un ritratto "politico" dall'infanzia alla prematura dipartita, di un altro piccolo “grande” eroe da non dimenticare.
La procedura operativa (montaggio un po’ ellittico, coordinamento delle scene con i personaggi che ne ripropongono i vari tasselli, “ricostruendoli” come loro “personale” rivissuta memoria davanti alla macchina da presa, costruzione  per flash-back  concentrici dentro un percorso solidamente “tradizionale” che unisce rigore e commozione) è classicheggiante, e il richiamo a Milk  già accennato sopra, dichiaratamente esplicito non solo nella sostanza, ma anche nella forma - compresi gli inserimenti, al termine della proiezione,  di porzioni dei filmati originali che fanno prendere confidenza con le vere facce dei protagonisti (i morti e i sopravvissuti) e rendono lo spettatore definitivamente consapevole della veridicità anche storica di ciò che ha appena visto passare sullo schermo, un procedimento necessario per determinare una conseguente aderenza emozionale molto vicina alla “partecipazione in diretta”. Il parallelo evidenziato -  pur con le differenti  diversificazioni “stilistiche” - è davvero l’elemento che maggiormente  caratterizza il film: non a caso infatti è stato sceneggiato da Dustin Lance Black, premio Oscar 2009 proprio per la sceneggiatura del film di Gus Van Sant. La sua in effetti è poi la mano che maggiormente “definisce” l’opera, rendendola adeguatamente palpitante con quel suo modo di scrivere suadente ed esplicito, la personalizza con piccole sottolineature anche un po’ rabbiose e incisivamente significative (fra tutte, l’entrata nella “casa” del “grande fratello” fra le minacciose ali  di attivisti oltranzisti inneggianti a Dio) capaci di storicizzare davvero il momento specifico in cui i fatti si sono svolti, restituendone clima e proporzioni.
Il regista contribuisce  poi per la sua parte (pur non essendo particolarmente creativo), aggiungendo la poeticità leggera e scorrevole che procede senza intoppi fra linearità e squarci  fortemente emotivi, via via che si palesano le fasi conclusive della sofferenza, giustamente privi di una eccessiva enfatizzazione che sarebbe stata davvero deleteria, e che ci mantiene invece distanti da una pericolosa rivisitazione agiografica  quasi “santificante”.
Accuratissima la fotografia  e lodevolmente poco invadente il commento musicale di supporto alle immagini. Le interpretazioni sono sobrie e ben caratterizzate (ottima la scelta che avvicina più o meno tutti gli attori utilizzati, anche come tratti somatici, alla fisicità reale degli effettivi protagonisti): nessun nome di particolare rilievo, ma professionisti di comprovata preparazione e scuola che entrano nei rispettivi ruoli con necessaria aderenza e non tradiscono le aspettative coordinandosi perfettamente col progetto e i  suoi realizzatori.
Come ultimo elemento “distintivo” dell’opera, vorrei sottolineare il fatto che il film è stato prodotto da Richard Glatzer e Wash Westermoreland (La Quinceañera) un ulteriore fattore, per la statura morale dei due personaggi in causa, che rende ancor più esplicito l’appassionato impegno divulgativo che contraddistingue l’opera, con quella particolare forma del “narrare per far conoscere”.

Su Nick Oceano

Prima interessante (non straordinaria, ma ben orchestrata e costruita) regia di Nick Oceano, origianrio dellos tato del Texas (San Antonio la sua città natale). La sua precedente attività si è concentrata sulla realizzazione di vari conrtometraggi alcuni dei quali invitati a partecipare a dei Festival cinematografici in terrà d'america e che gli hanno spianato la strada per la realizzazione diq uesta sua opera di più ampio respirp. Vive a Los Angeles, dove sta per laurearsi alla School of Cinematic Arts pressp la University of Southern California.

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