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Questione di cuore

Regia di Francesca Archibugi vedi scheda film

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La recensione su Questione di cuore

di spopola
8 stelle

Denso di memorie (cinematografiche) intese come luoghi (dalle suggestive risonanze empatiche) scelti per ambientare la storia, oltre che di forti coinvolgimenti emotivi (i miei, per lo meno, li definirei proprio così), è un film che mette al centro delle vicende narrate, la straordinaria importanza degli incontri e la forza rivoluzionaria dell’amicizia (quella “vera” che può davvero “cambiar la vita”, non certo il surrogato che adesso troppo spesso e con molta superficialità si pretende di spacciare come tale). Che dire dunque? difficile sintetizzare con un voto (io questa volta credo di non riuscirci proprio). Relativizzando, si può probabilmente dire infatti (anzi, credo che sia davvero così) che l’Archibugi si porti a casa con questa pellicola il suo miglior risultato; assolutizzando invece, possiamo evidenziare più di un limite e qualche sbavatura, a cominciare dalla prepotente carica ricattatoria del sentimento (sentimentalismo?) molto accentuata, e in fondo forse persino un pò “ruffiana” (che non sempre è da interpretare in senso negativo però).Certamente io mi ci sono trovato a “sguazzarci” dentro con profonda (perfino eccessiva) partecipazione “emozionale”, anche se c’è abbastanza “discrezione” sufficientemente trattenuta (pudore) che impedisce di sbracare nel patetico “assoluto” soprattutto nella conclusione un po’ drammatica ma non “tragicamente esasperata” di ciò che comunque “sapevamo già che doveva accadere fin dal principio”. Ci sono spesso situazioni personali che indirettamente (ma non del tutto involontariamente) portano a parallelizzare “rivivendoli”, momenti fortemente riconoscibili di analoghe dolorose condizioni (e allora si perde anche molta della lucidità critica che ci dovrebbero tenere attaccati alla razionale coerenza del giudizio, cosa che purtroppo a me accade decisamente troppo spesso in questi ultimi tempi, e non è un buon segno). Forse questa è proprio una di quelle, e si sa che se il cuore in qualche modo batte freneticamente fino a farti male (e non sai se “ringraziare” o “maledire” la coincidenza e il caso, che comunque avevi largamente messo in conto, perché non entri mai in sala senza saperne a sufficienza di ciò che andrai a ritrovare nella visione, per non immaginare che la scelta è derivata proprio da certi “nessi”, collegamenti, rimandi ed attinenze, anche un po’ masochistiche e sofferte) esci in parte esaltato (appagato intimamente) da ciò che sei riuscito a percepire (ti ha fatto inumidire gli occhi) e allora qualunque sia la cosa che ti è stata propinata, non stai a porti troppe domande o a cercare di trovare dentro l’uovo il pelo, ti ritieni “accontentato” (si fa per dire) e soddisfatto. Partiamo dalla cornice allora: Roma e le sue borgate “degradate” e magiche, pulsanti e vive come da tempo non accadeva di incontrare, quasi una “conoscenza” un po’ dimenticata (smarrita, “persa di vista”) e all’improvviso ritrovata, anche se non del tutto intatta, ma ugualmente capace comunque di risvegliare il senso percettivo del “ricordo”, quel crocicchio di vicoli e di strade che un tempo è stato il fulcro di tanto cinema italiano (il quartiere Pigneto; le viuzze sbrecciate fra Via Fanfulla da Lodi e Via Braccio da Montone in particolare) fra il Rossellini di “Roma città aperta” e il Pasolini di “Accattone”. Una Roma che sembra prendere la tenue consistenza di un sogno (che ci fa percepire “come eravamo” un tempo e come siamo diventati adesso). Davvero straordinaria e pulsante come raramente accade di incontrare… qualcosa che non immagini possa ancora restare ritto in piedi se non in un nostalgico ritaglio di una quasi "immaginaria" fantasia, una piccolissima oasi quasi di uno “speciale” paradiso in terra, dove sembra che il tempo si sia davvero fermato e ci sia ancora spazio e voglia per “parlare” e rapportarsi, perché lì la gente si conosce, si saluta, si frequenta, è da sempre in sintonia, si può dire che è “ancora umana”. E se il percorso narrativo (che trae origine da un romanzo di Umberto Contariello) si può considerare “nemmeno tanto originale nella sua struttura” (è un archetipo che si ritrova da sempre nella letteratura, quello “schema” conforme dei due opposti che si attraggono, che è anche la scoperta di un differente modo di approcciarsi all’esistenza e di imparare nell’altro a ritrovarsi), se qualche personaggio può essere considerato un poco di maniera, c’è però poi l’interpretazione degli attori (qui quasi tutti davvero straordinari) a renderla reale e veritiera, a fartela immaginare non come un’astrazione suggestiva di un teorema, ma concreta “vita vissuta”. E nel film dell’Archibugi diciamo che è proprio la recitazione ad essere la parte più “attraente” (toccante) quella che innesca la necessaria marcia in più, fornendo ossigeno anche alle sacche un po’ più asfittiche che spesso si identificano in una certa “dispersione” di racconto con tante annotazioni a margine non sempre essenziali o necessarie. Possiamo dire quindi che questo è un cinema di personaggi più che di situazioni? Forse è proprio questa la “chiave” giusta che dovremmo far girare nella serratura per non restare - più che delusi - un po’ perplessi e inappagati. Persone, “caratteri” difformi e “sconosciute vite” fortemente in bilico sul baratro vuoto dell’esistenza, comunque disponibili ad aprirsi per fare “spazio a qualcun altro” dentro al proprio cuore. Uomini che il caso (non fortunato) mette di fronte in un momento cruciale della propria esistenza, due mondi così distanti fra loro - quasi agli antipodi - due concezioni tutt’altro che convergenti, ma che porteranno salutari modifiche variazionali in grado di risvegliare il sentimento e di capovolgere il senso della propria solitudine interiore (grettezza, o incapacità di amare che dir si voglia, a seconda dei casi e delle fisionomie “schizzate” sulla tela bianca dello schermo). Persone, ma non astratte presenze dissociate dalla realtà però, che proprio dal “ritrovato” rapporto della condivisione, dall’imparare a “riconoscersi” (ed accettarsi) nelle proprie diversità anche di “classe”, riusciranno a riscoprire il ruolo di "referenza" allargata, che era poi l’asse portante che sorreggeva il cardine delle famiglie di una volta, tornato come d'incanto nuovamente il luogo "privilegiato" all'interno del quale è possibile cercare (ed ottenere) la protezione certa ed il sostegno, il propedeutico “tessuto" sociale insomma che ci circonda e ci sorregge ben oltre il nucleo centrale propriamente detto, capace di mantenere (restituire) fiducia e sicurezza anche quando qualcuno di “importante”, di fondamentale, viene a mancare e non per propria colpa. Antonio Albanese ne è il perno, il pistone che “pompa” la necessaria dose di carburante, l’ingrediente essenziale che da la giusta “consistenza” al piatto (e nobilita un carattere davvero risaputo e “ovvio”, quello dell’intellettuale disincantato e spento in piena “crisi”, che sa solo raccontare storie, e forse adesso non riesce più nemmeno a fare quello). Umano e ironico, stupito e desolato, corrosivo e sconsolato, è davvero grandioso, una delle sue migliori caratterizzazioni in assoluto. Non gli è però da meno Kim Rossi Stuart (irruento e popolare come la parte richiede, ma che ha appunto un’dea di famiglia e la sa far valere fino in fondo, la "racconta" con intelligente introspezione) che opera più in sottrazione, interiorizza magistralmente, e riesce a restituire tutto il senso (e il peso) dell’angoscia e della disperazione che lo attanaglia con impercettibili movimenti degli occhi, con piccole variazioni della faccia, semplici “contrazioni” dei muscoli, facendoci penetrare dentro il dramma immenso di una “conosciuta” predestinazione che sta diventando terribile realtà. Più defilata la Inaudi (è il ruolo che non offre molto di più di quello che riesce comunque a dare), mentre riconferma tutta la sua prepotente vitalistica esuberanza popolana, una intensa Michela Ramazzotti, davvero la “miglior proletaria” del cinema italiano dei giorni nostri (come qualcuno l’ha definita). A mio avviso superflua invece la presenza di Villaggio del quale si poteva benissimo fare a meno (anche gli episodi ai quali è legata la sua presenza potevano essere tranquillamente ridimensionati, insieme a tante digressioni “annotative” che poco aggiungono se non “colore”, a volte persino un po’ debordante per i troppi temi che si tenta di mettere a fuoco (seppure sottotraccia). Sulla trama invece non mi soffermo nemmeno (meglio scoprirla in sala a mio avviso, e poi è già “scopertamente” chiara se si guarda il trailer). Io posso dire in sintesi che proprio sulla storia ho pianto così tanto, che devo considerarmi per forza "ripagato"…. Ma un voto... proprio no, non lo so dare… e me ne astengo con consapevole coerenza, questa volta (come ho scritto sopra), perché sarei comunque “di parte” (e come tale, inattendibile e fazioso). Si capisce però comuqnue "da che parte sto" anche in questa circostanza, pur se con le "imponderabili ragioni dell'inconscio"... "Questione di cuore", insomma anche per ciò che mi riguarda! (ma non è poco, al giorno d'oggi, credo).

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